giovedì 10 giugno 2010

Kojo, la fabbrica giapponese

Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella

4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.

"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."

Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:

" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."

Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.

Bibliografia

Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.