lunedì 21 aprile 2008

Borghesia giapponese

Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Burujoa.


Burujoa. La borghesia giapponese
Storiografia, ideologia e interpretazione
di Cristiano Martorella

24 luglio 2005. La parola giapponese burujoa è un gairaigo (termine d’origine straniera) derivata dal francese bourgeios e introdotto attraverso la saggistica socialista all’inizio del Novecento (1). Nella storiografia occidentale la borghesia giapponese è stata vittima di fraintendimenti e dissimulazioni che ancora oggi fanno sentire il loro peso. Addirittura la classe media (chusankaikyu) sembra sparita dai libri di storia per dare spazio a valorosi, quanto mai mitici, samurai. Per ripulire la narrazione degli eventi dalle mistificazioni che affliggono la storiografia, bisogna comprendere innanzitutto il pregiudizio ideologico che vizia ogni considerazione. L’idea di fondo è che il Giappone potesse imitare l’Occidente, pur senza possederne le strutture sociali, soltanto se ciò fosse stato imposto dai politici dall’alto. Insomma, questo è il teorema dello sviluppo dall’alto propugnato dalle classi politiche che ignora completamente la borghesia giapponese e la sua storia. Questo teorema risulta estremamente fuorviante quando applicato alla storia dell’economia del Giappone. Economia che non è nata dalla mente dei politici, come vorrebbero far credere alcuni manuali scolastici, ma è il risultato dell’opera di milioni di lavoratori, del loro ingegno e del loro spirito imprenditoriale. Al contrario, dal 1925 al 1945, la classe dirigente ha ritardato lo sviluppo dell’economia del Giappone concentrando le risorse sull’industria pesante e militare, cercando di ottenere le fonti di approvvigionamento attraverso le conquiste coloniali al posto del commercio, trascinando il paese in guerre impossibili da vincere. Dal 1993 al 2001 è stata la classe dirigente che ha preso provvedimenti tali da inasprire la crisi economica, aumentando il debito pubblico e peggiorando i debiti delle banche, oltre a rendersi protagonista di scandali per corruzione. Attribuire meriti a politici capaci di ogni ignominia richiede uno sforzo di immaginazione davvero disumano. Eppure la storiografia ufficiale abbonda di simili voli della fantasia. Il caso più famoso e significativo è rappresentato da Franco Mazzei, autorevole storico e docente dell’Università di Napoli. Nel XII volume de La storia (2) edito dal quotidiano "La Repubblica", egli ripresenta la consueta teoria dello sviluppo dall’alto attraverso il confucianesimo aristocratico, rigettando l’importanza del ruolo svolto dalla borghesia mercantile (chonin). Franco Mazzei nega il ruolo predominante della borghesia commerciale nello sviluppo capitalistico, insistendo sulla funzione dirigistica del governo Meiji, considerato il vero ispiratore della rivoluzione borghese e principale artefice del decollo dell’economia del Giappone nel XIX secolo (3).
In effetti manca da parte di Franco Mazzei la discussione delle differenti teorie, propendendo a favore della tesi dello sviluppo dall’alto soltanto in base a una preferenza personale. La quantità degli studi contro la teoria dello sviluppo giapponese diretto dall’alto è però enorme, e mina la credibilità di molti storici tuttora ancorati a vetuste narrazioni e interpretazioni fittizie. Sicuramente il più fiero oppositore alla concezione della rivoluzione borghese guidata dal governo è stato Claudio Zanier, autore di un volume fondamentale (4) che mostra e smonta gli errori dei colleghi. Eppure il suo lavoro, come tanti altri, è stato occultato e dimenticato perché troppo scomodo.
Claudio Zanier ricorda le importanti riforme politiche ed economiche avvenute durante il periodo Edo (1603-1867) che furono una efficiente opera di razionalizzazione (5). I governi Tokugawa, molto prima della riforma Meiji, avviarono un processo che permise la formazione di una struttura sociale borghese e del capitalismo mercantilista. Le riforme fondamentali dell’epoca Edo furono la formazione di un catasto nazionale, la riforma fiscale e il disarmo dei contadini. Inoltre si attuarono le condizioni per far prosperare l’economia di mercato attraverso due secoli di pace continua e il commercio. Questo processo si sviluppò spontaneamente perché non era affatto intenzione dei governanti Tokugawa di favorire la borghesia e gettare le basi per la nascita del capitalismo, forma economica completamente ignota ed estranea alla mentalità degli shogun. Eppure fu proprio in queste condizioni che la borghesia giapponese trovò l’ambiente adatto allo sviluppo. Ciò che si verificò, per molti versi, era in contrasto con le intenzioni dei Tokugawa. Essi si adoperarono per la netta divisione in quattro classi (shimin) costituite da guerrieri, contadini, artigiani e commercianti (shi, no, ko, sho). Tuttavia l’epoca Edo conobbe una notevole mobilità sociale, e la crescente importanza e influenza dei chonin (commercianti) convinse molti samurai a cambiare classe, scegliendo la vita del mondo degli affari. Caso emblematico fu Mitsui Takatoshi (1622-1694), fondatore dei negozi Mitsui, famoso per essere stato tra i primi a rinunciare al rango di samurai per diventare commerciante. Sicuramente rappresentò l’evento più importante, ma non era un caso isolato, al contrario era abbastanza frequente.
Questa mobilità sociale insieme al dinamismo dei commercianti che costituirono un’autentica cultura (Genroku bunka) alimentata da attori di teatro, musicisti, poeti e scrittori, fornisce la negazione assoluta dell’idea dello sviluppo dall’alto. Soprattutto è l’affermazione del valore e del ruolo della borghesia mercantile giapponese, divenuta poi borghesia imprenditoriale nel XIX secolo.
L’economia del Giappone dell’epoca Edo (1603-1867) attuò l’accumulazione di capitali e risorse necessari al decollo (take off) dello sviluppo nei secoli successivi. Ovviamente furono i commercianti ad essere protagonisti in questa fase. Piuttosto fu nell’era Meiji (1868-1912) che si evidenziarono le debolezze dell’economia del Giappone causate da una cronica mancanza di capitali. Questo problema del capitalismo senza capitale, era provocato anche dall’indebolimento della borghesia a favore dell’esercito, autentico antagonista e avversario del capitalismo, sostenitore e difensore della concezione rurale della società. La produzione fu concentrata a fini militari, e il commercio limitato escludendo i manufatti inutilizzabili per il conflitto. L’indebolimento della borghesia favorì l’accentramento di potere e la formazione di cricche economiche che impedirono il libero mercato e la concorrenza. Le guerre nascosero la distorsione dell’economia del Giappone, favorendo nello stesso tempo i discorsi di chi sosteneva l’unità nazionale per il conseguimento degli obiettivi militari. Da questa anomalia il Giappone uscì grazie a una radicale sconfitta che eliminò l’esercito e le sue pretese di controllo sulla società. Nelle condizioni di equilibrio e libero commercio del dopoguerra, la borghesia giapponese ebbe la possibilità di incentivare una sana attività imprenditoriale, contribuendo alla straordinaria crescita del Giappone, economia ormai liberata dai ceppi dell’isolamento e delle costrizioni militariste.
Questa lettura fa emergere quanto sia pericoloso sostenere l’idea di uno sviluppo guidato dall’alto dalla classe dirigente politica che è stata, in realtà, l’artefice delle distorsioni e disgrazie del Giappone. Mentre l’artefice della crescita economica, la classe media (chusankaikyu) o borghesia media, viene ignorata dalla storiografia.
Un’interpretazione altrettanto fittizia è quella di Vittorio Volpi (6) che sostiene l’esistenza di una crisi di identità del Giappone. Però a quale identità si riferisce Vittorio Volpi? Al Giappone dei samurai e delle geisha? Questa interpretazione del Giappone tradizionale non tiene presente dell’esistenza di una classe borghese fin dall’epoca Edo, ignorando completamente la storia. Credere che la cultura giapponese sia soltanto una cultura aristocratica è un errore madornale. Incredibile è che ancora in tanti continuino a sostenerlo.




Note
1. La traduzione del Manifesto Comunista (Kyosanto sengen) apparve nel 1904, ad opera di Sakai Toshihiko e Kotoku Shusui. La parola francese bourgeois deriva a sua volta da bourg (borgo), così come la parola giapponese chonin (commerciante) da cho (quartiere).
2. Cfr. Franco Mazzei. Le riforme Meiji in Giappone, in La storia, vol.XII, par. XII, La Biblioteca di Repubblica, UTET, Torino e De Agostini Editore, Novara, 2004, pp.509-541.
3. Ibidem, pp.540-541.
4. Cfr. Claudio Zanier. 1975. Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino.
5. Ibidem, p.55.
6. Cfr. Vittorio Volpi. 2002. Giappone. L’identità perduta. Sperling & Kupfer, Milano.



Bibliografia

Ike, Nobutaka. The Development of Capitalism in Japan, in "Pacific Affairs", vol.XXII, 1949.
Martorella, Cristiano. 2002. Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche. Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone. Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia.
Miyamoto, Mataji. The Merchants of Osaka, in "Osaka Economic Papers", n.1, vol. VII, 1958.
Molteni, Corrado. 2004. Debito pubblico e politiche economiche, in Il Giappone che cambia. Atti del XXVII convegno di studi sul Giappone. Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia.
Smith, Thomas. 1959. The Agrarian Origins of Modern Japan. Stanford University Press, Stanford.
Smith, Thomas. 1955. Political Change and Industrial Development in Japan. Stanford University Press, Stanford.
Takahashi, Masao. 1967. Modern Japanese Economy since the Meiji Restoration. KBS, Tokyo.
Takekoshi, Yosaburou. 1930. The Economic Aspects of the History of the Civilization of Japan. Allen and Unwin, London.
Volpi, Vittorio. 2002. Giappone. L’identità perduta. Sperling & Kupfer, Milano.
Zanier, Claudio.1975. Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino.

sabato 1 marzo 2008

Fukoku kyohei

Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com. L'articolo è disponibile nel dizionario del sito Nipponico.com alla voce Fukoku kyouhei.



Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:
1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista "paese ricco ed esercito forte" nelle democrazie del XXI secolo.
La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di "fascismo giapponese", poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.


Note
1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.


Bibliografia
Arena, Leonardo Vittorio, Samurai, Arnoldo Mondadori, Milano,2002.
Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.
Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi. Einaudi, Torino, 1979.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche. Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996
Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in "Oriens", n.1, vol.8, 1955.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984 .



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com.