domenica 10 gennaio 2010

Koku jieitai

Koku jieitai
L'aeronautica giapponese dal dopoguerra a oggi
di Cristiano Martorella

10 gennaio 2010. La Forza Aerea di Autodifesa del Giappone (Japan Air Self Defense Force, JASDF), in giapponese Koku jieitai, nacque nel 1954 con assistenza e materiali americani. Inizialmente basata su aerei vetusti forniti dagli Stati Uniti, come il North American F-86 Sabre e il Lockheed T-33 Shooting Star, fu poi consolidata dalla produzione locale dei più moderni velivoli.
Negli anni '60 il caccia intercettore principale dell'aeronautica giapponese era il Lockheed F-104J Eiko. Gli F-104J, chiamati Eiko (Gloria) dai giapponesi, erano costruiti dalla Mitsubishi e dalla Kawasaki. Il primo reparto a ricevere gli intercettori F-104J fu il 201° Hikotai nel novembre 1962. Le versioni giapponesi dello Starfighter furono in totale 210 esemplari di F-104J e 20 del biposto F-104DJ. Il caccia intercettore F-104J Eiko era uno sviluppo del modello F-104G, ottimizzato per il combattimento aereo con il radar NASARR F-15-J31, il reattore J79-IHI-11A, e armato con quattro missili aria-aria Sidewinder.
La protezione aerea del Giappone era così affidata agli F-104J che avevano rispettabili prestazioni, con una velocità massima di 1845 km/h a 15000 m, che arrivava a Mach 2 in configurazione pulita, una velocità iniziale di salita di 254 m/s, e una quota di tangenza pratica di 15240 m.
Un aviogetto costruito localmente fu il progetto completamente nipponico dell'addestratore Fuji T-1 Hatsutaka, che volò per la prima volta l'8 gennaio 1958. Le industrie Fuji erano le eredi della fabbrica Nakajima (Nakajima Hikoki Kabushikigaisha), celebre per la costruzione dei migliori caccia, bombardieri e aerosiluranti usati nel conflitto mondiale. Il Fuji T-1F1 era un addestratore monoplano biposto con cabina pressurizzata, dotato di un apparato propulsivo costituito dal turboreattore nipponico Ishikawajima-Harima J3-IHI-3 da 1200 kg di spinta, sostituito da un modello J3-IHI-7 da 1400 sulla versione Fuji T-1F3. Le prestazioni di questo addestratore a getto erano soddisfacenti, con una velocità di 920 km/h, una tangenza operativa di 16000 m, e un'autonomia con serbatoi esterni di 1935 km. Ciò consentì che la maggior parte dei Fuji T-1 fossero ancora operativi negli anni '80, prima di essere sostituiti gradualmente da aviogetti più moderni.
Nel 1973 il Giappone ebbe in dotazione i primi McDonnell Douglas F-4EJ. Il pesante e potente cacciabombardiere F-4 Phantom fu utilizzato in Giappone per un totale di 140 esemplari. La McDonnell ne consegnò 10 esemplari, mentre 130 furono costruiti dalla Mitsubishi, la quale terminò la produzione nel 1981. La versione F-4EJ era una variante del tipo F-4E che poteva raggiungere una velocità di 2390 km/h o Mach 2,25. Dotato di un radar APQ-120, il McDonnell F-4E era armato con quattro missili aria-aria AIM-7 Sparrow a guida radar, e poteva montare sui piloni subalari anche missili aria-aria AIM-9 Sidewinder a guida infrarossa, mentre nel muso era installato un cannone a canne rotanti M61A1 da 20 mm.
Un altro velivolo di fabbricazione locale fu il cacciabombardiere Mitsubishi F-1 che volò la prima volta il 3 giugno 1975. Derivato dall'addestratore Mitsubishi T-2, il cui primo volo risale al luglio 1971, era ispirato al progetto francobritannico SEPECAT Jaguar. Il cacciabombardiere Mitsubishi F-1 era dotato di due turboreattori a doppio flusso Ishikawajima-Harima TF40-IHI-801A da 3570 kg di spinta ciascuno con postbruciatore, peso massimo di 13,6 t, velocità massima di 1700 km/h o Mach 1,6 e un'autonomia di 2595 km. L'armamento era costituito da un vasto arsenale di missili, bombe e razzi, fra cui il missile aria-superficie Mitsubishi ASM-1.
L'aeronautica militare giapponese fece un salto di qualità negli anni '80, quando i piloti ebbero la possibilità di ottenere il più avanzato caccia dell'epoca: il McDonnell Douglas F-15J Eagle. Le prestazioni di questo intercettore erano eccellenti, con una velocità massima di 2600 km/h, e un'autonomia massima di 4630 km, e un carico bellico di 7528 kg. Il Giappone realizzò un consistente programma basato sul potente e flessibile intercettore. Infatti furono costruiti su licenza, a partire dal 1980, un totale di 223 esemplari di F-15J. Il primo F-15J consegnato al Koku jieitai fu schierato nel 1981.
Gli Eagle giapponesi furono poi affiancati da un altro valido aereo, il Mitsubishi F-2, un cacciabombardiere derivato dal General Dynamics F-16. Il prototipo del Mitsubishi F-2 aveva volato il 7 ottobre 1995, e nonostante qualche ritardo, il primo lotto di aerei era stato consegnato nel 2002. La costruzione, basata sul modello F-16, aveva una fusoliera più lunga e ricoperta di materiale radar assorbente, e le superfici alari erano uno sviluppo innovativo con l'impiego di materiali compositi. Il cacciabombardiere F-2 ha un peso di circa 22 t, una velocità massima di 2200 km/h, una quota massima di 20000 m, e un carico fino a 9000 kg su 11 piloni esterni.
Infine l'aeronautica militare giapponese ebbe in dotazione, dall'11 marzo 1998, l'aereo radar all'epoca più moderno e avanzato: il Boeing E-767 AWACS. Quest'aereo poteva controllare un'area che andava dai 320 ai 500 km di raggio, con un'autonomia di 10370 km, garantendo il monitoraggio di un ampio spazio e coordinando l'attività dei caccia intercettori.
Questa è in breve la storia della JASDF (Japan Air Self Defense Force), la Koku jieitai, una forza militare erede di un'importante tradizione aeronautica che risente dei severi limiti imposti dalla politica, e per fortuna, non sembra costituire un potenziale aggressivo ma soltanto un deterrente difensivo.

sabato 9 gennaio 2010

Hatoyama Yukio e la Cina

Intervento pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX". Cfr. C.M., Gli Stati Uniti non sono più il baricentro del mondo, in "Il Secolo XIX", giovedì 7 gennaio 2010, p.22.

Nella politica estera del premier giapponese Hatoyama Yukio, la Cina riveste un ruolo importantissimo. Infatti, il modo in cui i giapponesi guardano alla Cina è decisamente cambiato in questi ultimi anni. Si pensi soprattutto al fatto che l'export giapponese è attualmente orientato alla Cina, avendo superato quello diretto agli Stati Uniti. Il principale partner economico del Giappone non è più negli Stati Uniti, ma si trova nei paesi asiatici emergenti e nella Cina. Addirittura ci sono fenomeni di costume molto indicativi del cambiamento di clima, come l'aumento dei matrimoni misti fra cinesi e giapponesi, favorito anche dal crescente numero di facoltosi ricchi nel paese che può vantare i ritmi di crescita economica più elevati. Nel 2009 la Cina non ha subito la crisi avvertendo la recessione come le altre nazioni, ma si è limitata a un rallentamento della crescita che è rimasta comunque su livelli molto sostenuti. Il piano di stimoli economici della domanda interna e dei consumi ha funzionato perfettamente, e ciò non ha gravato particolarmente sul debito pubblico che si attesta intorno al 15% del Pil. Nel 2010 gli analisti prevedono una crescita del Pil cinese intorno al 9%, una cifra impressionante che conferma ancora la crescita sostenuta. Negli ultimi trent'anni, il tasso medio di crescita del Pil cinese è stato appunto del 9% circa. Ma il premier giapponese Hatoyama può guardare alla Cina anche per altre ragioni. Da tempo Hatoyama, così come il governo cinese, sostiene la necessità di staccarsi dal dollaro americano come valuta di riferimento internazionale, proponendo una moneta unica asiatica sul modello dell'euro utilizzato in Europa. Insomma, gli Stati uniti non sono più il centro del mondo, e in Asia molti politici cominciano a pensare che debbano prendere la situazione in mano, e dirigere le scelte sociali ed economiche che riguardano i loro paesi.
Cristiano Martorella

giovedì 7 gennaio 2010

Chonin, i mercanti giapponesi

Articolo sul ruolo fondamentale dei commercianti nell'economia giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Chonin. Commercio e cultura
L’importanza dei commercianti nella cultura ed economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 luglio 2003. Il ruolo svolto dai commercianti (chonin) nel Giappone premoderno e moderno ha avuto la giusta attenzione da parte della saggistica. Purtroppo l’immagine comune e superficiale che si ha del Giappone è fossilizzata sulla rappresentazione del guerriero samurai, offuscando gli altri protagonisti della storia. Si può però rimediare facilmente a tale falsa impressione ricordando quanto è stato evidenziato dagli studiosi più avveduti.
Sono due i punti da rimarcare per una corretta conoscenza della storia economica giapponese:

1) La dinamica e mobilità sociale fra le classi;
2) Il processo di sviluppo capitalistico avvenuto dal basso in modo spontaneo.

La mobilità sociale del Giappone premoderno è stata così elevata quanto dimenticata. Eppure fu questo fenomeno che causò le trasformazioni della struttura economica e sociale del paese. Questa trasformazione avvenne in modo incontrollabile da parte del potere politico shogunale che non seppe adeguarsi e si ritrovò ad assistere all’ascesa della borghesia mercantile (chonin). Gli shogun dell’era Tokugawa ebbero un atteggiamento ambivalente nei confronti della borghesia. A livello ideologico la condannarono sostenendo la validità dei princìpi neoconfuciani e rilanciando le scuole di pensiero conservatrici (Sushigaku, Shoheiko, etc.). Anche ciò produsse però l’effetto contrario perché il neoconfucianesimo giapponese favorì la razionalizzazione negli studi che furono poi alla base della rangaku (scienza occidentale). A livello pratico i Tokugawa gettarono le fondamenta dello sviluppo urbano tanto da creare a Edo, poi Tokyo, il modello metropolitano. Bisogna comunque sottolineare che senza l’unificazione politica del Giappone operata dai Tokugawa, non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico e il superamento del modello rurale. Lo storico Yamamura Kozo (1) ha chiarito con dovizia e precisione come lo sviluppo economico del Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) fu un processo spontaneo nato dal basso per merito della borghesia prosperata nel periodo Edo (1603-1867). Risulta così falsa la tesi che sostiene la modernizzazione dell’economia giapponese condotta dall’alto dalle autorità governative, o peggio, indotta dalla penetrazione degli occidentali. Già Edwin Reischauer (2) aveva notato come il feudalesimo giapponese avesse caratteristiche molto simili a quello europeo, e sappiamo quanto questo genere di organizzazione sociale, che favoriva la formazione di centri urbani, fosse importante per creare le condizioni per l’avvio del capitalismo mercantile. Perciò lo sviluppo capitalistico giapponese fu assolutamente autoctono e non indotto dall’esterno. Sorprende che ancora oggi vi sia qualcuno che sostenga la tesi dell’introduzione dall’esterno del modello capitalistico negando di fatto che i giapponesi siano gli artefici della propria storia. Si tratta comunque di una tesi con forti influenze ideologiche che presuppone il primato del sistema occidentale nella sua unicità. Così non è, ed è bene ribadirlo.
Altra caratteristica importante della storia nipponica fu la forte mobilità sociale dal XVI secolo in poi, ovvero il passaggio a classi diverse dal proprio lignaggio e la commistione dei diversi strati sociali che provocava trasformazione, progresso ed evoluzione culturale ed economica. Risulta infatti chiaro e ben evidente che l’immobilità sociale sia antitetica a un sistema capitalistico basato sul libero mercato. Il grande rimescolamento sociale del XVI secolo fece coniare agli storici giapponesi l’espressione ge koku jo (il basso vince l’alto), un’espressione molto efficace ricordata anche dall’orientalista Thomas Cleary. La mescolanza fra le classi avvenne secondo due direzioni. Prima della separazione di contadini e guerrieri operata da Toyotomi Hideyoshi nel 1588 e chiamata heino bunri, c’era una commistione fra samurai di campagna (goshi) e contadini armati. Un fenomeno ricordato da Kurosawa Akira nel film I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) col personaggio di Kikuchiyo interpretato da Mifune Toshiro. Aspetto ironico della faccenda è che la divisione fu operata da Toyotomi Hideyoshi, uomo di umili origini contadine che era asceso al potere per meriti militari acquisendo il titolo di daijo daijin (ministro), e la nobiltà tramite il sistema dell’adozione (yoshi). L’altro movimento molto più ampio fu quello che avvenne dopo l’organizzazione del XVII secolo con la separazione in quattro classi (shinokosho). Gli uomini di città, ossia i mercanti e la borghesia, furono chiamati chonin. Il potere shogunale cercò di mantenere forzatamente la separazione fra le classi così da garantire il governo della popolazione che non poteva formare un fronte compatto e ribellarsi. Il declino dei Tokugawa fu provocato dall’impossibilità di mantenere questa immobilità sociale. Infatti i samurai si mischiarono ai chonin godendo dei vantaggi della vita urbana e molti di essi cambiarono classe divenendo chonin. I samurai che non cambiarono classe ebbero comunque forti contatti con i borghesi, e come i ronin, samurai senza padrone, vivevano in mezzo a loro. I lavori svolti dai ronin per sopravvivere, come l’insegnamento delle lettere e delle arti, provocarono una diffusione molto vasta della cultura non più riservata a una sola classe. Gli stessi chonin si recavano a teatro per assistere alle storie che vedevano come protagonisti i samurai. Lo spostamento dell’impiego dell’arte dall’aristocrazia alla borghesia è un fenomeno avvenuto anche in Europa nel XIX secolo dopo le trasformazioni sociali avviate dalla rivoluzione francese. In Giappone ciò accadde molto prima, nel XVII secolo del periodo Edo. A ciò si aggiungeva, ed è l’aspetto più importante, la formazione di un tessuto urbano altamente produttivo e con caratteristiche borghesi nettamente marcate. Ciò significa che l’economia dell’epoca si fondava sulla produzione di beni con elevato valore aggiunto, un tratto caratteristico delle società capitalistiche. Tuttavia restava ancora arretrato il sistema monetario, in parte basato sul riso e su diseguali monete d’oro, argento, rame e ferro con cambi vari e disomogenei. Perciò dobbiamo attendere l’era Meiji (1868-1912) per vedere uno sviluppo completo del capitalismo. Comunque la coincidenza nel tessuto urbano del sistema produttivo (economia) e del mondo dell’arte (cultura) nel Giappone del periodo Edo (1603-1867) è un aspetto estremamente significativo. Soprattutto indica la forza del rapporto cultura/economia nella storia giapponese. Passiamo a ricordare quanto la cultura della borghesia (chonin bunka) fosse dominante nonostante l’avversione dell’ideologia delle autorità governative. La cultura Genroku (1688-1704) fu rappresentata dalla letteratura del Kamigata e dai nomi di Ihara Saikaku, Matsuo Basho e Chikamatsu Monzaemon. Nato da una famiglia di commercianti di Osaka, Ihara Saikaku divenne celebre per le sue opere di eccezionale realismo. Nella serie di racconti intitolati Nippon eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone, 1688), egli narra le vicende di persone arricchite o impoverite. Ihara Saikaku ammette in modo spudorato e sincero l’attitudine dei chonin con la seguente frase: Yo ni zeni hodo omoshiroki mono wa nashi (In questo mondo non c’è niente di più interessante dei soldi). L’aspetto che stiamo sottolineando è la coincidenza di cultura ed economia che traevano la propria forza dallo stesso tessuto sociale. Si pensi a Ejima Kiseki (1667-1736), un mercante che divenne scrittore, oppure un intellettuale poliedrico come Hiraga Gennai (1728-1779) che fu ronin, ceramista, botanico, inventore e scrittore. Costoro, con le dovute differenze di estrazione sociale, vivevano però nello stesso mondo e condividevano la stessa vita urbana dell’epoca. La drammaturgia e la narrativa erano finanziati dai ricchi chonin. Come nel caso di Ejima Kiseki, gli editori (per questo scrittore fu Hachimonjiya) erano enormi librerie che sovvenzionavano gli autori. Il sistema produttivo prosperava grazie alla creatività dei cittadini borghesi e l’espansione capitalistica era avviata da tale spirale virtuosa in cui chi produceva era anche consumatore (ciò è completamente diverso dal sistema rurale dove l’aristocrazia era parassitaria). La nascita dell’economia giapponese avvenne dal basso e in modo spontaneo. Così fu per la cultura, tanto che si può dire che la cultura pop giapponese più diffusa fu quella dell’epoca Edo, se vogliamo usare una terminologia attuale e di moda. E’ bene ricordare che questa idea della nascita della cultura pop nell’epoca Edo è stata proposta dall’architetto Ueda Atsushi. L’autorevole storico Yamamura Kozo, spiega in modo molto chiaro il concetto della nascita dal basso dell’economia e cultura giapponese.

"È fuori dubbio che il Giappone sia un paese moderno e che faccia parte dell’Asia: la conclusione evidente è che esso dovette modernizzarsi secondo proprie modalità. Un kimono in fibra sintetica richiama alla mente tanto l’abbigliamento di un samurai quanto l’architettura di un impianto chimico gigantesco e molto complesso: non è per questo necessario chiamarlo un tailleur, né definire magia occidentale un processo chimico. Al pari di un kimono di rayon, l’economia giapponese è un prodotto dell’industrializzazione, ma la modernizzazione che l’ha accompagnata non ha occidentalizzato il paese sino al punto da cancellare completamente il retaggio peculiare della sua storia e della sua cultura. Se questo è il motivo principale del fascino che la storia economica del Giappone esercita su di noi, va aggiunto che la capacità di divenire moderno senza perdere il senso della propria eredità nazionale è in fin dei conti il segreto del successo industriale dell’arcipelago." (3)

Nonostante sia evidente a tutti, il pregiudizio che i giapponesi abbiano copiato dagli occidentali, sia le strutture sociali sia le tecniche, è difficile da estirpare. Ammettere che il modello occidentale di civiltà non è l’unico e il migliore è ancora troppo difficile o addirittura un tabù (4). Così si impedisce la comprensione della storia economica, ma vi si può porre rimedio.


Note

1. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino,1980.
2. Cfr. Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994, p.44.
3. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino, 1980, p.321.
4. In proposito ha ricevuto apprezzamento da parte degli economisti la denuncia di questo tabù da abbattere. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia, XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.

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