tag:blogger.com,1999:blog-49162972667387910092024-03-13T06:45:51.908-07:00La storia del GiapponeLa storia del Giappone descritta dalle ricerche e gli studi degli specialisti ci rivela delle scoperte inaspettate.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comBlogger42125tag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-56723090918832969642010-11-19T00:58:00.000-08:002010-11-19T01:00:57.495-08:00Il nazionalismo giapponeseArticolo sul nazionalismo e patriottismo giapponese pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone [discutiamodelgiappone.blogspot.com].<br /><br />Aikokushin, l'amor patrio<br />Lineamenti di storia della politica nazionalista giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />7 maggio 2008. Lo spirito patriottico giapponese (aikokushin) è ben noto per i risvolti tragici provocati dallo sfruttamento nazionalista e propagandistico del regime autoritario instaurato dai militari nel XX secolo. Chiarire e capire come ciò sia avvenuto è il compito degli storici. L'apporto di ulteriori studi e ricerche è quindi benvenuto e utile per fornire nuove prospettive. Questo contributo si inserisce nel lungo dibattito sulle origini del totalitarismo, e intende distinguere gli aspetti culturali dalla matrice ideologica. Il Giappone, a differenza di Italia e Germania, non ha mai avuto una precisa base ideologica politica, e nonostante ciò ha realizzato un regime totalitario sfruttando le caratteristiche culturali del popolo giapponese. Però lo sfruttamento nazionalistico della cultura giapponese non può essere interpretato come una equivalenza. La cultura giapponese non è equiparabile in toto a un regime autoritario. Non sono le caratteristiche culturali ad aver generato il totalitarismo, ma la storia degli stati, il loro assetto istituzionale e politico, infine le relazioni internazionali. <br />Lo stato come entità trascendentale astratta è una creazione occidentale del XIX secolo (pur avendo la sua formulazione teorica già nel XVII secolo ad opera di Thomas Hobbes). La teorizzazione compiuta di tale entità è merito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Purtroppo la storia ha visto coincidere la nascita dello stato-nazione con la smisurata crescita della potenza militare e il brutale sfruttamento del colonialismo. Hegel, al contrario, aveva magnificamente elaborato una mirabile sintesi fra i diritti individuali e l'organizzazione della collettività nello spazio politico dello stato, dove realizzare concretamente le facoltà e aspirazioni umane. Purtroppo il XIX secolo, e il seguente XX secolo, stravolsero la dottrina di Hegel facendo dello stato un'entità astratta al servizio di forze economiche e politiche brutali, crudeli e spregiudicate. Il Giappone seguì le democrazie occidentali imitandone le istituzioni e le leggi con la riforma Meiji (Meiji ishin) del 1867. <br />L'introduzione così rapida della democrazia non coincise però con un rafforzamento delle forze liberali (partiti, sindacati, movimenti politici, etc.) che furono sottoposte a un graduale indebolimento. In particolare, furono gravissimi gli attentati ai politici di orientamento liberale che assassinati crudelmente non poterono svolgere la propria attività. I fanatici di estrema destra ebbero con facilità la possibilità di creare un clima di instabilità favorendo l'eversione e i tentativi di colpo di stato. Ogni volta che lo stato mostrava la sua debolezza, essi fomentavano l'insoddisfazione popolare invocando lo spirito patriottico (aikokushin). Il processo di destabilizzazione fu molto lento e graduale poiché non mancavano le resistenze dei ferventi sostenitori delle democrazia (politici, imprenditori, insegnanti, studenti, giornalisti, operai, etc.). Disgraziatamente gli estremisti inflissero dei colpi durissimi alle istituzioni. Nel 1921 uccisero il Primo Ministro Hara Takashi presso la stazione di Tokyo. Fu un attentato brutale e spietato. Il 14 novembre 1930 fu aggredito il Primo Ministro Hamaguchi Osachi, morto l’anno successivo in conseguenza delle ferite riportate. Il 15 maggio 1932 fu assassinato nella propria residenza il Primo Ministro Inukai Tsuyoshi. Nello stesso anno furono uccisi il Ministro delle Finanze e capo del Rikken Minseito (Partito Costituzionale Democratico), Inoue Junnosuke, e il direttore della Mitsui, Dan Takuma. Nel 1936, durante un tentativo di colpo di stato, furono ammazzati il Ministro delle Finanze Takahashi Korekiyo e l'ammiraglio Saito Makoto. <br />Un aspetto particolare e fondamentale per capire la situazione complessa del militarismo giapponese del XX secolo, è costituito dalla cruenta lotta interna nell'esercito. Infatti, i militari negli anni '30 erano divisi in due fazioni avversarie: Kodoha e Toseiha. Dopo il fallimento del tentato colpo di stato del 26 febbraio 1936, la fazione Kodoha cadde in rovina e conobbe il declino politico. La Kodoha criticava aspramente l'eccesso di potere delle cricche economiche che detenevano un monopolio, avversava quindi gli zaibatsu e il capitalismo. Il declino della Kodoha permise così un più facile rafforzamento del legame fra militari e zaibatsu, eliminando gli elementi di attrito. La Toseiha (fazione di controllo) non intendeva cambiare la struttura dello stato, ma impadronirsene per condurre una guerra di conquista. Quindi privilegiava una riorganizzazione dell'esercito fondata sulla meccanizzazione delle unità e una specializzazione tecnica. Al contrario, la Kodoha (fazione della via imperiale) puntava sul ripristino dei valori spirituali tradizionali, e quindi sul cambiamento della società attraverso una riorganizzazione dello stato. La Kodoha riteneva prioritaria la riorganizzazione dello stato prima di qualsiasi intervento militare, e considerava l'Unione Sovietica l'avversario naturale del Giappone e delle sue mire espansionistiche. I militari che guidavano la Kodoha erano Araki Sadao e Masaki Jinzaburo. La supremazia della Toseiha significò anche un avvicinamento alle idee politiche della Germania nazista, come nel caso di Yamashita Tomobumi. Addetto militare all'ambasciata giapponese in Austria, Yamashita fu chiamato nel 1938 per una visita di cortesia a Berlino, dove simpatizzò con Adolf Hitler, mantenendo in seguito stretti legami col nazismo. Le forze armate giapponesi non avevano un'unica visione politica, inoltre non esisteva un partito politico di riferimento, e gli obiettivi erano diversi e contrastanti. Purtroppo la supremazia della Toseiha segnò la svolta rovinosa della politica giapponese che prima appoggiò la Germania nazista, eppoi fu trascinata in guerra contro gli Stati Uniti nel 1941. Tuttavia non erano tutti d'accordo con queste scelte che furono descritte come patriottiche da quei militari al potere interessati unicamente ai vantaggi per la propria fazione. <br />Gli estremisti sostennero sempre di essere dei patrioti (aikokusha), tuttavia è evidente che il loro amore per il paese era insincero, avendo desiderato di destabilizzare lo stato. Essi non erano affatto patrioti perché erano giunti a desiderare la distruzione dello stato giapponese, quando videre minacciati i propri interessi. Addirittura i fanatici tentarono anche di destituire sua maestà l'Imperatore Hirohito, quando egli decise di dichiarare la resa del paese. Il tenente colonnello Takeshita Masahiko fu l'artefice e organizzatore del tentato colpo di stato contro Hirohito. Il 14 agosto 1945 vi fu l'irruzione di ufficiali dello Stato Maggiore nel Palazzo Reale di Tokyo. Il maggiore Hatanaka Kenji uccise il generale Mori Takeshi, comandante delle guardie imperiali, fedele all'Imperatore e favorevole alla resa. <br />Queste azioni criminali furono facilitate dal consenso che l'estrema destra era riuscita a creare. Il punto di svolta era costituito infatti dallo sfruttamento del sentimento nazionalistico e del sincero patriottismo. Gli intellettuali di estrema destra furono abilissimi nell'elaborare dottrine e piani politici d'intervento che coinvolgevano la popolazione. Spesso le loro idee non mancavano di originalità ed erano sofisticate e accurate. La propaganda riuscì così ad oscurare il buon senso e le ragioni dei liberali. Il più noto attivista politico di estrema destra fu Kita Ikki, instancabile agitatore e pericoloso sovversivo, scrisse un volume che indicava chiaramente le azioni da intraprendere. L'opera era intitolata Piano per la ricostruzione del Giappone (Nihon kaizo hoan taiko, 1919) e sosteneva la necessità di eliminare il Parlamento, sospendere la Costituzione, realizzare una riforma agraria contro i latifondisti, espropriare le ricchezze dell'alta borghesia ed estirpare il capitalismo. Per ottenere ciò bisognava perseguire una politica di potenza militare, invadendo le zone dotate di risorse minerarie e petrolifere, conquistando la Manciuria, la Cina settentrionale e la Siberia. Kita Ikki affermava che la rivolta dei poveri contro i ricchi era un ristabilimento della giustizia. La matrice culturale a cui si rifaceva era però ben altra, ed era comune a molti intellettuali giapponesi. Si trattava del ruralismo (nohonshugi), un movimento ideologico che poneva al centro della società la comunità agricola, con il suo spirito di autogoverno. Il regime militarista fece del ruralismo il fondamento per il modello sociale del sistema imperiale. La comunità agricola, tesa a mantenere l'armonia sociale, doveva rappresentare il modello ideale al quale tutta la società giapponese si ispirava e conformava, una società priva quindi di contraddizioni e dunque conflitti e antagonismi (ma anche assente di dialettica fra le parti sociali). Un altro concetto che accostava il ruralismo era il familismo (kazokushugi), anch'esso mutuato dalla tradizione. Fra i discepoli di Kita Ikki, merita una considerazione Okawa Shumei, filosofo e studioso delle religioni che propugnava la necessità di un ritorno alle antiche tradizioni del Giappone. Nel 1925 egli fondò perciò la Società del paradiso e della terra (Gyochisha), e partecipò alla costituzioni di altre organizzazioni patriottiche. Altri pensatori come Gondo Seikyo e Tachibana Kosaburo espressero l'orientamento del “comunitarismo fraterno”. Questi intellettuali, Okawa Shumei, Tachibana Kosaburo, Gondo Seikyo, a cui va aggiunto anche Inoue Nissho, si fecero promotori di una autentica rivolta contro il modello occidentale in nome della cultura e spirito giapponese.<br />Purtroppo i sovversivi e i terroristi si inserirono prepotentemente in questo dibattito, sfruttando la situazione e dirigendo il malumore e la protesta. Difatti la critica al modello occidentale non implicava la scelta di azioni violente, e la politica imperialista e colonialista era perseguita già da quelle nazioni straniere tanto detestate. Le soluzioni proposte dagli estremisti di destra assomigliavano troppo al problema che si voleva risolvere: lo stato giapponese sarebbe divenuto un regime autoritario imperialista e colonialista che avrebbe combattuto con le armi il colonialismo occidentale. <br />La trasformazione dello stato giapponese avvenne in modo graduale e si avvalse di molte condizioni e caratteristiche favorevoli all'autoritarismo. Una di queste condizioni fu la concezione dell'individuo come strumento dello stato e lo sfruttamento del patriottismo. Questa strumentalizzazione degli esseri umani fu possibile grazie alla militarizzazione e mobilitazione del paese. Tramite la giustificazione della guerra contro i paesi che opprimevano il Giappone, si rendeva indiscutibile il processo di trasformazione in regime totalitario. La sindrome dell'accerchiamento e della minaccia del colonialismo occidentale fu un argomento tanto forte che ancora oggi ricompare in molti libri storici di autori giapponesi come spiegazione dell'intervento militare dell'Impero del Sol Levante. Bisogna però ristabilire il corretto rapporto causale fra gli eventi. L'esistenza del colonialismo occidentale in Asia è solo un fattore, un elemento, a cui si contrapponevano i nazionalisti giapponesi. Il regime autoritario fu creato tramite il graduale indebolimento delle istituzioni democratiche da parte degli estremisti di destra. Il merito e le colpe di ciò che accadde è da attribuirsi alle dinamiche delle relazioni fra forze politiche. La sindrome dell'accerchiamento del colonialismo occidentale funzionò come strumento di propaganda, così come lo sfruttamento del patriottismo, del nazionalismo e dell'identità culturale. Il regime utilizzò ampiamente le caratteristiche della civiltà giapponese, soprattutto lo spirito di gruppo (shudan ishiki), un aspetto profondamente radicato nella mentalità giapponese. Purtroppo tutte le facoltà apprezzabili ed encomiabili dello spirito di gruppo (shudan ishiki) diventano deprecabili quando degenerano nel conformismo. Fu il pedagogista Makiguchi Tsunesaburo a indicare il conformismo come male e insidia pericolosa per la libertà nella società giapponese. Il dilagante conformismo minacciava la capacità di critica, le proposte di prospettive alternative, la riflessione raziocinante e non emotiva. Infine favoriva l'obbedienza cieca e disumana, la crudeltà che schiacciava il singolo individuo, la credulità ignorante e superstiziosa. Il conformismo di gruppo (dantaishugi) è un male sociale che compromette ogni forma di democrazia, ed è quindi l'indizio e l'inizio dell'instaurarsi di un regime totalitario. <br />Il fatto storico più importante e vistoso fu comunque la militarizzazione della società. A differenza di Germania e Italia, il Giappone non sviluppò un'ideologia basata su un partito, bensì subì violentemente la penetrazione dell'esercito nelle istituzioni parlamentari e nel governo, in ogni aspetto della vita sociale, dalla famiglia alla scuola, fino al lavoro nell'industria. L'ideologia che si affermò fu il militarismo (gunkokushugi) in una forma totalitaria mai vista in precedenza. Infatti il militarismo giapponese del XX secolo non va affatto confuso con l'aristocrazia guerriera delle epoche precedenti. I samurai erano una ristretta classe aristocratica separata dalle altre, con precisi obblighi e doveri, quindi subordinata e soggetta al potere politico. L'esercito giapponese fin dal 1873, era invece un esercito di leva e la coscrizione era obbligatoria. Esisteva una mobilitazione totale della società al servizio dell'esercito. L'esercito era divenuto un'entità politica assimilante e coinvolgente che assoggettava ogni istituto (famiglia, scuola, industria). Tutti i cittadini erano soldati, e ognuno doveva fornire il proprio contributo per la causa che era il potenziamento militare del paese. In questo sistema non era però ben demarcato il confine fra i diversi poteri, anzi era tutto molto confuso e labile. In teoria il potere assoluto spettava all'Imperatore, ma nella realtà la Costituzione gli impediva di prendere iniziative. Il potere di governo era spesso nelle mani di militari che assumevano le decisioni più importanti senza consultare l'Imperatore e il Parlamento. Concretamente il potere era gestito in maniera dispotica, come in una caserma, con piccole e grandi prevaricazioni. Le rivalità fra militari erano forti, spesso a discapito della collaborazione. Il dialogo era assente, la comunicazione scarsa, mentre prevalevano i comandi, le esortazioni, il biasimo e gli slogan. <br />La propaganda era florida e si avvaleva della nota sensibilità artistica del popolo giapponese. Molti scrittori esaltarono l'eroismo e la dedizione dei soldati giapponesi in guerra, comunque la prodezza e il valore in questo caso erano autentici anche se materia della retorica. Il capitano Sakurai Tadeyoshi raccontò nel romanzo autobiografico Nikudan (Proiettili umani) l'assedio di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese. La fama delle imprese dei soldati giapponesi giunse fino in Europa, tanto che persino uno scrittore italiano e corrispondente dall'estero, Luigi Barzini, ne riportò e narrò le gesta eroiche. Numerosi furono i poemi commemorativi, come il Canto in onore di Shirakami Genjiro, un trombettiere che suonò la carica anche se ferito a morte. I sacrifici del popolo giapponese in guerra non furono esaltati soltanto dai patrioti e dalla propaganda di estrema destra, anche alcuni scrittori di sinistra, e la cosiddetta puroretaria bungaku (letteratura proletaria), si occuparono dell'abnegazione dei cittadini che semplicemente amavano il proprio paese. In questo senso il patriottismo non era un argomento di esclusivo appannaggio della destra. <br />La militarizzazione del paese fu una catastrofe, tanto da essere indicata con un'espressione molto forte: kurai tanima (l'abisso oscuro, all'incirca l'epoca dal 1931 al 1941, ossia dall'invasione della Manciuria alla Guerra del Pacifico). L'elemento di discriminazione restava tuttavia la concezione dello stato poiché l'idea più diffusa considerava i cittadini come servitori della nazione. Anche accettando questa concezione, si riconosce facilmente come i militari abbiano tradito il proprio paese favorendo gli interessi personali, occupando ogni posto di potere, depredando le risorse della nazione. Perciò i libri di storia dovrebbero spiegare con più chiarezza e nei particolari il modo in cui i generali Tojo Hideki, Yamashita Tomobumi, Tani Hisao e tanti altri, usarono il potere assunto per arricchirsi, sfruttare e saccheggiare. La giustificazione della guerra servì a troppi militari per nascondere i propri furti, stupri e abusi. Questo fu il più alto tradimento del paese. <br /><br />Bibliografia<br /><br />Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.<br />Bergamini, David, Japan's Imperial Conspiracy, Morrow, New York, 1971.<br />Brown, Delmer, Nationalism in Japan. 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L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).<br />Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:<br /><br />1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;<br />2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;<br />3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;<br />4) Persistenza del modello militarista "paese ricco ed esercito forte" nelle democrazie del XXI secolo.<br /><br />La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.<br />Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.<br />Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.<br />La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.<br />Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di "fascismo giapponese", poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.<br />Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.<br />I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.<br />Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.<br /><br />Note<br /><br />1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.<br />2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.<br />3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.<br />4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).<br />5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Arena, Leonardo Vittorio, Samurai, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.<br />Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.<br />Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.<br />Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.<br />Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.<br />Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.<br />Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.<br />Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in "Oriens", n.1, vol.8, 1955.<br />Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-59966019915891856692010-11-19T00:55:00.000-08:002010-11-19T00:56:30.547-08:00Il liberalismo giapponeseArticolo sul liberalismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Jiyushugi. Il liberalismo illuminista giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />8 aprile 2002. La parola jiyushugi è composta da jiyu (libertà) e shugi (principio), dunque una traduzione letterale di liberalismo. La corrispondenza non è solo nella parola, ma anche nei concetti. Nonostante ciò l’argomento del liberalismo giapponese è decisamente ignorato dagli occidentali che si compiacciono di una serie di stereotipi orientati a fornire un’immagine autoritaria della società e politica giapponese. Questo desiderio di cristallizzare la vita giapponese in una rappresentazione astrusa si ribella quando si presenta un quadro storico che contraddice qualsiasi dogma preconcetto. Allora si esclude la riflessione e l’analisi dei fatti appellandosi alla specificità culturale. Ma l’uso di questo argomento è mal posto, poiché invece di favorire un confronto lo esclude a priori invocando l’incommensurabilità. Soltanto un uso rigido e strumentale della logica dualistica occidentale può fornire supporto all’idea che qualcosa di diverso debba essere necessariamente sempre opposto e contrario. Viceversa, la logica orientale, come quella del filosofo Nishida Kitaro, partendo dal principio di realtà che presenta le cose come relazioni e non come opposti, afferma l’identità dei contrari (mujunteki doitsu) dissolvendo la contrapposizione. Questa premessa ci permette di comprendere come i giapponesi possano concepire la propria società come fusione (yugo) di istituti e tecniche occidentali con sentimenti e tradizioni autoctone. Al contrario di quanto si pensa, ciò non è considerata contraddittorio e conflittuale, ma come un naturale processo di miglioramento (shinpo).<br />Il liberalismo è uno degli elementi fondamentali che sono entrati a far parte della cultura giapponese. Un elemento che è decisamente ignorato per favorire quell’immagine stereotipata di cui si è parlato prima.<br />Nella seconda metà del XVIII secolo gli studiosi giapponesi delle scienze occidentali, detti rangakusha, non si limitarono alle discipline tecniche (medicina, botanica, fisica, astronomia, etc.) ma estesero i loro interessi anche alle istituzioni e alle idee politiche. Il rapporto privilegiato con l’Olanda, paese che si distingueva per la tolleranza e la garanzia delle libertà, facilitò l’acquisizione di tali conoscenze. In seguito ci si rivolse alla Gran Bretagna, assunta come modello principale (ma è anche la patria del liberalismo, il paese di John Locke e David Hume).<br />Nella prima metà del XIX secolo nuovi studiosi sostennero il rinnovamento del pensiero politico giapponese. Fra questi spiccarono Takano Choei (1804-1850), Watanabe Kazan (1793-1841), Sakuma Shozan (1811-1864) e Oshio Heihachiro (1794-1837), quest’ultimo capeggiò perfino un’insurrezione ad Osaka nel 1837. In questa fase le idee politiche liberali erano limitate a una élite di intellettuali e non avevano vasta diffusione. I contadini (nomin) erano impegnati in rivolte e richieste dell’abbassamento delle tasse, i mercanti (chonin) vedevano accrescere il loro potere economico e culturale ma senza possibilità d’influenza politica, i guerrieri (bushi) tentarono di inserirsi nel nuovo ordine sociale come amministratori. Ma la necessità di un nuovo ordine sociale spingeva alla ricerca di innovative soluzioni che si stavano effettivamente presentando, anche se ancora timidamente.<br />Yamagata Banto (1748-1821), autore di Yume no shiro, sostenne in modo originale il relativismo culturale e l’ateismo.<br /><br />"Ogni dottrina predomina in certi luoghi ed è caratteristica di paesi diversi. […] Fondamentalmente non esistono leggi stabili nel mondo." (Yume no shiro, epilogo e 2,23)<br /><br />Egli riconobbe che sebbene ogni paese fosse in possesso di leggi, non esistevano né leggi naturali né leggi universali, né punizioni divine né premi divini. Si può confrontare questa posizione a quella contemporanea di Voltaire esposta in Micromega e Candido, oppure di Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver, o anche di David Hume nel Trattato sulla natura umana. Questi pensatori, come Yamagata Banto, separavano l’etica dalla religione riportandola nell’arbitrio umano e nella sua sfera di libertà. La libertà della persona era l’unico principio universale che potesse essere sostenuto. Inoltre condannavano severamente la superstizione. Così scriveva Yamagata Banto:<br /><br />Jigoku nashi<br />gokuraku mo nashi<br />ware mo nashi<br />tada aru mono wa<br />hito to banbutsu.<br />Kami hotoke<br />bakemono mo nashi<br />yo no naka ni<br />kimyo fushigi no<br />koto wa nao nashi.<br /><br />Né inferno né paradiso né io,<br />tutto quanto esiste è l’uomo<br />e la moltitudine delle cose.<br />Né dei né Buddha né mostri,<br />tanto meno a questo mondo cose<br />strane e misteriose.<br /><br />Ma se il liberalismo era ancora a un livello primordiale e rudimentale nella generazione dei rangakusha, esso divenne un tema centrale e fondamentale dopo la riforma Meiji (Meiji ishin, 1868). Studiosi giapponesi si recarono in Europa e riportarono con sé le idee politiche che animavano il vecchio continente.<br />Nakae Chomin (1847-1901) apprese il cinese e il francese, fu l’interprete dell’inviato Léon Roche e fece parte della missione Iwakura del 1871 trascorrendo due anni e mezzo in Francia. Divenne editorialista pubblicando sul "Toyo jiyu shinbun" (Libero Oriente), sullo "Shinonome shinbun" (L’Aurora) e sul "Rikken jiyu shinbun" (Libertà costituzionale). Nakae Chomin riteneva che i moderni valori politici e sociali del liberalismo fossero universali e trascendessero le diversità culturali. Egli tradusse il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau esaltandone il valore. Dichiarò di averlo tradotto perché affermava apertamente che la gente aveva dei diritti, e Rousseau era l’autore più importante nel dibattito sui diritti civili.<br /><br />"Rousseau era nel vero quando affermava che l’uomo privo di libertà e diritti non è un uomo. […] Un governo dispotico, diceva Montesquieu, è quello che abbatte l’albero per cogliere il frutto. Come è vero! Se si considerano le cose da questo punto di vista, la soppressione dei diritti civili da parte dei governanti è esasperante." (Nakae Chomin, "Toyo jiyu shinbun", n.1, 18 marzo 1881)<br /><br />Autentico paladino del liberalismo giapponese fu Fukuzawa Yukichi (1834-1901). Anche Fukuzawa si recò all’estero (nel 1860, 1862 e 1867) convincendosi della necessità di aprire il Giappone al sapere e al sistema educativo occidentale. Pubblicò nel 1866 il Seiyo jijo (Lo stato delle cose in Occidente) che ebbe notevole successo, e nel 1872 il Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere). Nel 1873 fondò con Nishi Amane e Mori Arinori la Meirokusha (Società del sesto anno Meiji) e la rivista "Meiroku zasshi". A partire dal 1882 pubblicò un suo quotidiano intitolato "Jiji shinpo" (Notizie dei tempi). Gli articoli delle riviste e giornali curati da Fukuzawa trattavano temi di politica, economia, legge ed educazione, contenevano sferzanti critiche al governo e alle istituzioni, difendevano la libertà di stampa.<br />I valori sostenuti da Fukuzawa Yukichi erano la libertà individuale, l’uguaglianza tra gli uomini, la parità tra gli stati, la civiltà e l’istruzione. In particolare, riprendendo la lezione di John Locke, egli esaltava il ruolo della libertà individuale nella costituzione dello stato. Nel suo Gakumon no susume, egli esordisce affermando:<br /><br />"Si dice che il cielo non crei alcun uomo al di sopra di un altro, e nessun uomo al di sotto di un altro."<br /><br />Il principio della libertà individuale è quindi indispensabile secondo Fukuzawa come fondamento della società e dello stato democratico.<br /><br />"Colui che non si batte per la propria libertà, non si sentirà mai del tutto coinvolto per quella del suo paese. […] Colui che non è in grado di avere la sua indipendenza nel proprio paese non potrà mai difendere i propri diritti e quelli del suo paese […]"<br /><br />Parole che inseriscono Fukuzawa Yukichi fra i pensatori liberali più sinceri e autentici del XIX secolo.<br />Per concludere, una semplice osservazione. Il liberalismo occidentale è definito come un movimento politico e culturale a sostegno della libertà individuale, del riconoscimento dei diritti della persona e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Si può affermare, senza alcun dubbio e dopo quanto considerato, che il liberalismo era presente anche in Giappone già nel XIX secolo. Il liberalismo fu una scelta spontanea e volontaria degli intellettuali giapponesi. La penetrazione del liberalismo fu più modesta nei ceti popolari, ma non si può negare che avvenne anche se in tempi lunghi. La tesi della democrazia come dono delle nazioni occidentali al Giappone è dunque insostenibile. Al contrario, la comunanza dell’eredità liberale dovrebbe far rigettare quel desiderio di distinguere le sorti del popolo giapponese dalle nostre. Il liberalismo è autentico quando afferma l’universalità dei diritti umani. Nessuna diversità culturale può costituire una scusante per negare gli interessi comuni dell’umanità.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.<br />AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.<br />AA.VV., Nihon no rekishi, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1967.<br />Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.<br />Beonio Brocchieri, Paolo et alii, Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999.<br />Beonio Brocchieri, Paolo, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.<br />Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni Editore, Roma, 1999.<br />Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1996.<br />Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.<br />Reischauer, Edwin, Storia del Giappone, Bompiani, Milano, 1998.<br />Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.<br />Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-28210811252816485762010-11-19T00:53:00.000-08:002010-11-19T00:55:01.896-08:00Il socialismo giapponeseArticolo sul socialismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Shakaishugi. Il socialismo utopico giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />30 maggio 2002. Se si può dire che le tematiche socialiste siano state quasi un tabù in Giappone, a maggior ragione si può affermare che in Occidente si è volutamente ignorata la storia del socialismo giapponese. In effetti si può capovolgere la questione e mettere in luce come e quanto si sia voluto nascondere in Occidente. Spesso si è considerata la politica giapponese come una semplice emanazione di un supposto spirito autoritario che non incontrava opposizione grazie a un’attitudine collaborativa di matrice confuciana. Purtroppo o per fortuna, secondo i casi, questo modello non corrisponde agli eventi storici.<br />Curiosamente perfino la sinistra italiana ha misconosciuto le lotte e le aspirazioni dei socialisti giapponesi. Così abbiamo potuto leggere sulle pagine de "Il Manifesto" i numerosi articoli di Pio d’Emilia che denunciavano l’arretratezza culturale dei giapponesi descritti come un popolo politicamente disimpegnato. Ma anche questi interventi, seppure meritevoli di occuparsi della questione, erano lontani da una corretta conoscenza della storia politica giapponese. Ed è questo il punto che invece vogliamo considerare.<br />La parola shakaishugi traduce letteralmente socialismo, essendo composta da shakai (società) e shugi (principio, dottrina, -ismo). Il termine apparve in Giappone intorno al 1880. In quel periodo esisteva già un movimento liberale che si batteva per i diritti civili, l’eguaglianza, la libertà e il suffragio universale. Nel 1882 fu fondato il Toyo shakaito (Partito Socialista dell’Oriente) con un programma antiautoritario ispirato ai populisti russi. Il partito fu immediatamente sciolto, ma nel 1883 fu fondato lo Shakaito (Partito Socialista) che organizzò proteste e manifestazioni di notevole intensità. Agli inizi degli anni Novanta alcuni intellettuali della sinistra liberale si orientarono verso le idee del socialismo moderno. Nel 1893 venne fondata la Minyusha (Società degli amici del popolo) che costituì sia una casa editrice sia un’associazione. Nel 1893 pubblicò Genji no shakaishugi (Il socialismo attuale), e nel 1894 la rivista diretta da Tokutomi Iichiro intitolata "Kokumin no tomo" (L’amico della nazione). Nel 1894 venne pubblicato anche Shinkyu shakaishugi (Socialismo vecchio e nuovo), traduzione di Socialism New and Old (Londra, 1890) di William Graham. Ciò a conferma dell’attenzione che i socialisti giapponesi avevano nei confronti del panorama internazionale. In questo contesto avvennero i contatti fra socialisti americani e giapponesi. Il giornalista Takano Fusataro strinse contatti con i numerosi operai emigrati negli Stati Uniti, e così anche Katayama Sen, laureatosi in America.<br />Nel 1897 Takano Fusataro pubblicò Shokko shokun ni yokosu (Appello ai compagni lavoratori) in cui denunciava lo sfruttamento e le ingiustizie del capitalismo. Come altri intellettuali giapponesi, era però dubbioso delle possibilità di una lotta rivoluzionaria. Nel 1897 Katayama Sen e Takano Fusataro fondarono un forte sindacato giapponese (Sindacato dei lavoratori metallurgici) sul modello dei sindacati americani. Katayama dirigerà anche un bimestrale intitolato "Rodo sekai" (Mondo del lavoro).<br />Circa i sindacati, il primo fu quello costituito nel 1883 dai conducenti di risciò contro l’introduzione delle carrozze a cavalli. Nel 1894 apparve quello dei tipografi. Ma erano ancora privi di una forte organizzazione, aspetto che fu invece curato nel 1897. Nel 1898 vi fu lo sciopero dei macchinisti della società ferroviaria Nippon tetsudo, i quali rivendicavano una migliore posizione sociale e stipendi più alti.<br />La repressione non si fece attendere. Nel 1900 il governo promulgò una legge di polizia sulla sicurezza pubblica (chian keisatsu ho) che proibiva qualsiasi attività operaia e sindacale. La censura proibì la traduzione in giapponese di molti autori come Sombart, Zola, Engels, Marx e Tolstoj. Il divieto rimase fino al 1914. Ovviamente i socialisti trovarono qualsiasi espediente per aggirare i divieti. I sindacati poterono agire come "società di mutuo soccorso" e molte pubblicazioni apparvero con la copertura dell’utilizzo a fini di studio. Infatti la legge prevedeva che si potessero pubblicare scritti con finalità di studio se questi non recavano disturbo all’ordine pubblico. Così apparve nel 1906 la traduzione del Manifesto del Partito Comunista sulle pagine dello "Shakaishugi kenkyu" (Studi socialisti).<br />Ma l’atmosfera era tutt’altro che tranquilla. Nel settembre 1905 vi furono i moti di Tokyo nati da una manifestazione nel parco di Hibiya per protestare contro le clausole dell’accordo di Portsmouth fra il Giappone e la Russia. Gli scontri furono durissimi, perirono 17 civili sotto i colpi delle spade della polizia e furono distrutti più della metà dei presidi della polizia. Fu proclamata la legge marziale. Il Primo Ministro Katsura Taro fu costretto a dimettersi e fu sostituito dal Principe Saionji. Nel 1906 una serie di scioperi partiti dal cantiere navale di Ishikawajima (febbraio 1906) si estesero all’arsenale civile di Kure, all’arsenale militare di Tokyo (agosto 1906), all’arsenale di Osaka (dicembre 1906), al cantiere navale di Nagasaki (febbraio 1907) e al porto militare di Yokosuka (maggio 1907). A questi scioperi si aggiunsero quelli delle miniere (Ashio, Horonai, Besshi e Ikuno). Il governo reagì con una riorganizzazione industriale e una feroce repressione. Quando Katsura Taro ritornò al potere (luglio 1908) la repressione divenne ancora più brutale. Katsura decise di eliminare definitivamente la sinistra militante.<br />I socialisti giapponesi avevano però reagito bene ai tentativi di soppressione. Nel 1898 Katayama Sen, Abe Isoo, Kawakami Kiyoshi e altri fondarono lo Shakaishugi kenkyukai (Associazione per lo studio del socialismo) e nel 1900 la Shakaishugi kyokai (Associazione socialista). Il 20 maggio 1901 venne fondato lo Shakai minshuto (Partito Socialdemocratico). Le proposte dei fondatori comprendevano il suffragio universale, il disarmo, la nazionalizzazione delle terre, dei capitali e dei trasporti, e l’istruzione pubblica a carico dello stato. Il partito venne sciolto dopo due giorni per volontà del governo.<br />I socialisti non si arresero. Nel febbraio 1906, approfittando del governo liberale di Saionji Kinmochi, fondarono il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone). Il congresso di Tokyo (17 febbraio 1907) del Nihon shakaito vide due mozioni contrapposte. Kotoku Shusui sostenne l’azione diretta, mentre Tazoe Tetsuji appoggiò una tattica parlamentare e legalitaria. L’assemblea congressuale votò a maggioranza una terza mozione di compromesso presentata da Sakai Toshihiko. Ma Katsura Taro attendeva solo un pretesto per soffocare nel sangue il movimento socialista. Avvenne l’episodio delle "bandiere rosse" (22 giugno 1908) causato dalle incomprensioni fra le due fazioni socialiste. La fazione dell’azione diretta, ispirata alla tendenza anarchica, era capeggiata da Kotoku Shusui, Arahata Kanson e Osugi Sakae. L’altra fazione, la corrente parlamentare e moderata, era sostenuta da Tazoe Tetsuji, Ishikawa Sanshiro, Sakai Toshihiko e Yamakawa Hitoshi. L’episodio vide i manifestanti della fazione più radicale agitare le bandiere rosse provocatoriamente. La polizia reagì violentemente.<br />Nel maggio 1910 avvenne l’episodio gravissimo del "taigyaku jiken" (il caso di alto tradimento). Furono arrestati numerosi militanti socialisti, tra cui Kotoku Shusui, accusati di aver complottato l’assassinio dell’Imperatore. L’accusa era falsa e pretestuosa, ma trovò nelle parole a favore dell’azione diretta un indizio per essere sostenuta. In realtà la corrente più intransigente dei socialisti non era mai andata oltre il livello teorico nell’adesione all’anarchismo.<br />Tokutomi Roka (1868-1927) commentò così l’episodio:<br /><br />"Sono chiamati ribelli e traditori, ma non erano dei ribelli ordinari, erano uomini dagli alti ideali […] che si sono sacrificati per un sogno, quello di un nuovo mondo di libertà e uguaglianza, uomini che desideravano fare del loro meglio per l’umanità. […] Kotoku e gli altri furono considerati dei ribelli dal governo e uccisi. Ma voi non dovete temere i ribelli. Non temete i ribelli. Non temete di diventare ribelli voi stessi. Tutto ciò che è nuovo è ribellione." (Bozza di una conferenza, 1911)<br /><br />Dodici dei socialisti arrestati furono condannati a morte e impiccati. Fra di loro c’erano Kotoku Shusui e Kanno Sugako. Quest’ultima era stata giornalista, fidanzata di Arahata Kanson, convivente e amante di Kotoku, e aveva partecipato all’episodio delle "bandiere rosse". Le donne giapponesi ebbero un ruolo straordinario nella storia del movimento socialista. Ingiustamente trascurate dai testi occidentali, le donne giapponesi svolsero un’attività intensa che produsse i maggiori cambiamenti a livello sociale lottando per i diritti fondamentali (emancipazione, parità dei sessi, istruzione, suffragio universale). Inoltre aggiunsero nuove motivazioni e istanze alle rivendicazioni dei socialisti, contribuendo ad armonizzare le riforme e l’esistenza umana.<br />Contemporanea di Kanno Sugako fu Hiratsuka Raicho (1886-1971). Ella portò avanti il movimento di emancipazione femminile raccoltosi intorno alla rivista "Seito" (Calze blu, dal nome di un circolo femminile del XVIII secolo, blue stocking). In tempi recenti, la tradizione femminile socialista ebbe fra gli esponenti più significativi la signora Doi Takako che guidò il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone) all’opposizione e a numerosi successi elettorali (in particolare nel 1989).<br />Si può così affermare che ogni epoca del Giappone vide l’impegno delle donne nel cambiamento sociale. L’emancipazione femminile avvenne in tempi così rapidi che sarebbe difficile spiegarla come un semplice riflesso dell’Occidente. In realtà le donne giapponesi avevano sempre avuto un’importanza fondamentale nella società giapponese. E questo avvenne anche per quanto riguarda il movimento socialista.<br />Higuchi Ichiyo (1872-1896) fu la più importante scrittrice del periodo Meiji, autrice di Takekurabe (Gara d’altezza, 1895) compose circa tremila tanka. Ella fu autodidatta e dimostrò la possibilità di emancipazione delle donne e delle classi modeste attraverso la diffusione della cultura e dell’istruzione.<br />Yosano Akiko (1878-1942) rappresentò un altro caso di donna emancipata e disinibita. Insistendo sulla necessità di liberare le donne dalle convenzioni, usò la poesia tradizionale (tanka) come mezzo di riscatto sociale. La donna raffigurata da Yosano Akiko era indipendente, consapevole delle sue scelte e dei suoi desideri. La poetessa non mancò di concretizzare nella sua esistenza questi ideali, dimostrandone la possibilità di realizzazione.<br />Hiratsuka Haruko (1886-1971), attivista socialista conosciuta con lo pseudonimo di Raichou, era chiamata "la donna della nuova era". Fra i suoi articoli ricordiamo Genshi josei wa taiyo de atta (Nei primordi la donna era il sole). Fu amante dello scrittore socialista Morita Yonematsu con il quale tentò il suicidio d’amore (shinju). Morita non comprese le motivazioni di Hiratsuka che desiderava il suicidio per "realizzare il suo ideale di vita, un viaggio solitario, una vittoria dei suoi vent’anni". Egli descrisse però la sua esperienza nel romanzo Fuliggine che divenne documento dello scandalo.<br />Come è qui emerso, il socialismo non fu soltanto un movimento politico, ma soprattutto un fervore intellettuale e culturale che rinnovò il Giappone. La letteratura giapponese fu profondamente influenzata dal socialismo, sia direttamente (per le tematiche) sia indirettamente (per fornire una risposta alternativa alle domande sollevate dai socialisti). E come tale il socialismo è intensamente e inseparabilmente legato alla storia del Giappone. Una storia mantenuta segreta in Occidente.<br />Se il socialismo è l’utopia dell’eguaglianza e della giustizia sociale, indipendentemente da ogni realizzazione pratica, sarà sempre immortale come ideale. E nessuna repressione potrà spegnere questa fiamma alimentata proprio dall’ingiustizia che vorrebbe soffocarla.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.<br />Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.<br />Engels, Friedrich e Marx, Karl, Manifesto del Partito Comunista, Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1998.<br />Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.<br />Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998.<br />Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-41099671590300840172010-11-19T00:51:00.000-08:002010-11-19T00:53:10.998-08:00Il comunismo giapponeseArticolo sul comunismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Kyosanshugi. Il comunismo intellettuale giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />9 giugno 2002. Kyosanshugi ovvero comunismo in giapponese. Ma cominciamo dalle origini mondiali del comunismo. La nascita dei partiti comunisti avvenne tramite l’impulso della III Internazionale fondata a Mosca nel 1919, la quale riprendeva l’esperienza della Rivoluzione russa del 1917. Ciò provocò la scissione dei partiti socialisti preesistenti, come quella del Partito Socialista Italiano che diede vita al Partito Comunista Italiano a Livorno nel 1921. Nel 1922, appena l’anno successivo, veniva fondato clandestinamente in Giappone il Nihon Kyosanto (Partito Comunista Giapponese). Nato dai contatti con il Comintern a Shanghai, ebbe durata breve a causa delle polemiche e della repressione della polizia. Esso si sciolse nel marzo del 1924, ma nel dicembre del 1926 fu ricostituito. Comunque il suo disaccordo con gli altri partiti della sinistra fu tale da impedire qualsiasi azione politica.<br />Se il comunismo non ebbe una grande presa sulle masse popolari giapponesi, al contrario del socialismo che poteva vantare maggiori consensi, ebbe però un’importanza particolare su alcuni intellettuali. Le idee comuniste, e in particolare il metodo marxista, diedero l’impulso a un tipo di studi inusuali in Giappone e nel mondo asiatico. Tuttavia fu proprio questa caratteristica del comunismo giapponese degli anni Venti e Trenta a costituirne la debolezza. Gli intellettuali marxisti giapponesi erano scettici sulle possibilità di una rivoluzione nell’arcipelago nipponico ed erano orientati a forme di lotta pacifiche come la propaganda e la diffusione degli studi. Ciò impediva la formazione di una base popolare a sostegno del partito. Kawai Eijiro espresse questa situazione della sinistra giapponese e le sue idee con chiarezza.<br /><br />"Quantunque io parli di socialismo, rifiuto i metodi illegali e approvo quelli legali, aborro la rivoluzione violenta e preferisco gli strumenti parlamentari. Di conseguenza, non mi rivolgo alla plebe infima. Non ho mai discusso di socialismo in un comizio di operai." (Dichiarazione al processo del 1939)<br /><br />Pure nella loro debolezza, questi intellettuali espressero idee brillanti e critiche pungenti. Kawakami Hajime (1879-1946), poeta, professore e giornalista, era un comunista profondamente influenzato dalla religione, in particolare dal cristianesimo e dal buddhismo. Egli poneva l’attenzione sui valori di umiltà e carità e intendeva il comunismo con un senso pacifista, come la via per eliminare le ingiustizie economiche e sociali. Kawakami era professore di economia e i suoi studi aprirono prospettive nuove e inedite. Nel 1917 pubblicò Binbo monogatari (Racconto di povertà) in cui esaminava la povertà da un punto di vista della scienza economica. Notevole fu Shihonshugi keizaigaku no shiteki hatten (Lo sviluppo storico delle teorie economiche del capitalismo, 1923) e Keizaigaku taiko (Le basi dell’economia, 1928). Nel 1932 si iscrisse al Partito Comunista e partecipò ad attività clandestine. Kawakami Hajime espresse le critiche più profonde e severe allo stato giapponese. Nel 1911 pubblicò Nihon dokutoku no kokkashugi (Il nazionalismo peculiare del Giappone) sulla rivista "Chuokoron". Egli affermò che la condanna degli anarchici, avvenuta nello stesso anno, era intrisa di motivazioni. Il Giappone non poteva permettere che gli anarchici vivessero. Il motivo non era il pericolo costituito dai loro atti violenti, ma la devozione che essi avevano all’ideale e alla causa. Per i giapponesi, secondo Kawakami, il valore più grande e più alto era lo stato e la paura maggiore era la distruzione di questa adorazione.<br /><br />"I giapponesi, pur disposti ad annullare se stessi nello stato, sono incapaci di farlo per qualcosa di più alto dello stato. Come risultato, gli studiosi sacrificano i loro princìpi allo stato e i monaci la loro fede. Questa è la ragione per cui noi giapponesi manchiamo di grandi pensatori e di grandi religiosi. Lo stato è il nostro Dio, e l’Imperatore rappresenta il divino kokutai. Il nostro sovrano incarna ciò che denominiamo la divinità astratta dello stato." (Nihon dokutoku no kokkashugi, 1911)<br /><br />Altri intellettuali si avvicinarono alle dottrine marxiste come Miki Kiyoshi, Nakano Shigeharu, Kurahara Korehito e Kobayashi Takiji. Il filosofo Miki Kiyoshi (1897-1947) spiccò per la novità dei suoi studi. Dopo aver studiato con Nishida Kitaro si orientò alla filosofia della storia introducendo il metodo d’analisi marxista. Nel 1928 diede vita insieme ad Hani Goro alla rivista "Shinko kagaku no hata no moto ni" (Sotto la bandiera della nuova scienza) dove scrisse saggi sul marxismo. Nel 1931 pubblicò Rekishi tetsugaku (Filosofia della storia). Nonostante fosse cacciato dall’università per aver diffuso le idee marxiste, Miki Kiyoshi non era un comunista integrale, e il suo stesso metodo di studio era debitore a pensatori come Blaise Pascal, Martin Heidegger e il maestro Nishida Kitaro. Miki usò il marxismo, come altri intellettuali giapponesi, per il suo alto valore scientifico.<br />Agli occhi del comunismo occidentale Miki Kiyoshi può apparire più un avversario che un compagno. Infatti egli fu involontariamente fra i sostenitori del nihonjinron (specificità culturale giapponese) utilizzando gli stessi metodi del marxismo. In Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero, 1939) egli sostenne la formazione e la forza delle idee generate dalla storia e dai processi materiali. Così Miki Kiyoshi trovava una spiegazione della specificità giapponese conforme al materialismo storico. La diversa storia del Giappone avrebbe costituito da sola sia la causa sia l’effetto dell’originalità culturale nipponica. Sappiamo che la sinistra occidentale ha sempre etichettato come ideologica questa presunta specificità giapponese. Eppure Miki, coerente con il suo metodo d’indagine e fedele al materialismo storico, giungeva a un’analisi che partiva da presupposti materiali. Inoltre egli riusciva a spiegare l’ideologia, o sovrastruttura, in un contesto unitario e non fazioso, così come doveva essere per l’indagine storica.<br />Paradossale che i filosofi giapponesi dell’inizio del XX secolo avessero una conoscenza più perspicua della storia? Non è affatto casuale. I comunisti Michael Hardt e Antonio Negri stanno rimproverando ai loro compagni l’errore di non aver condotto analisi sulla produzione e riproduzione sociale fermandosi soltanto agli aspetti intellettuali e metafisici. La stessa osservazione può essere rivolta ai critici marxisti del sistema giapponese, ma perfino agli stessi Hardt e Negri che nelle loro indagini ignorano la differenza giapponese. Se il postmoderno è caratterizzato da una mancanza di senso, non è casuale che anche gli attuali studi sociologici abbiano perso l’interesse a fornire spiegazioni sensate.<br />L’influenza del marxismo sugli intellettuali giapponesi degli anni Venti e Trenta fu davvero forte. Noro Eitaro (1900-1934) pubblicò Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) in cui conduce una descrizione diacronica dei cambiamenti sociali coordinata dall’utilizzo sincronico dei concetti sociologici. Ciò gli consentì d’applicare uno studio comparativo e di trattare fenomeni prettamente giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. Noro Eitaro aderì al Partito Comunista nel 1930, ma fu arrestato e torturato a morte dalla polizia soltanto quattro anni più tardi.<br />Altri storici giapponesi furono influenzati dal marxismo. Nel 1928 Hattori Shiso (1901-1956) pubblicò Meiji ishinshi (Storia della Restaurazione Meiji) e Hani Goro (1901-1983), nello stesso anno, Seisan ishinshi kenkyu (Studio sulla storia della Restaurazione). Insieme scrissero Nihon shihonshugi hattatsushi koza (Studi sulla storia dello sviluppo del capitalismo giapponese), opera in sette volumi editi fra il 1932 e il 1933.<br />Fortissima fu l’influenza anche sui letterati. Dazai Osamu (1909-1948) si iscrisse al Partito Comunista ma lo abbandonò nel 1932, pentendosi in seguito di questa scelta e avvertendo il senso di colpa d’aver lasciato i compagni di lotta. Anche Akutagawa Ryunosuke scrisse un saggio intitolato Puroretaria bungei to wa nan de aro (Che cos’è la letteratura proletaria?, 1927). Il comunista Kobayashi Takiji (1903-1933) scrisse il romanzo Kani kosen (La nave dei granchi, 1929) in cui descriveva le condizioni dei lavoratori su una nave da pesca e denunciava gli abusi del potere. Nel 1933 pubblicò Tenkan jidai (Età di cambiamenti) in cui racconta la storia di un iscritto al partito.<br />Altri scrittori marxisti furono Miyamoto Yuriko (1899-1951) e Nakano Shigeharu (1902-1979). Miyamoto Yuriko visse due anni e mezzo (1928-1930) in Unione Sovietica insieme a Yuasa Yoshiko, una studiosa di letteratura russa. Tornata in Giappone si iscrisse nel 1931 al Partito Comunista e sposò Miyamoto Kenji. Nonostante i numerosi arresti scrisse parecchi racconti e saggi. Il marito fu detenuto per dodici anni, e in questo periodo scrisse migliaia di lettere pubblicate nel 1950 col titolo Juninen no tegami (Dodici anni di lettere).<br />Un’altra scrittrice proletaria fu Hayashi Fumiko (1904-1951) che lavorò come venditrice ambulante, cameriera e inserviente nei caffè. Ella scrisse Horoki (Storia del vagabondaggio, 1928), un’opera che commosse molti lettori. Hayashi Fumiko ebbe una popolarità straordinaria nel Giappone del dopoguerra e la sua vita fu rappresentata al teatro, al cinema e alla televisione. La sua città, Onomichi, la ricorda con affetto e con una presenza costante (musei, statue, mostre, musei, celebrazioni, etc.).<br />La controversa storia del comunismo giapponese si costella così di eventi drammatici e popolari, che se da un lato gli rendono fama, dall’altro non gli consentono di ottenere quel consenso elettorale necessario per influire nella vita politica giapponese. Dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, gli americani abolirono la terribile legge sull’ordine pubblico del 1900 e il 4 ottobre 1945 furono liberati i comunisti ancora detenuti. Ma l’essersi opposti al regime non facilitò la vita dei comunisti giapponesi.<br />Il Kyosanto (Partito Comunista), fuori legge dal 1924, tornò alla ribalta e riorganizzato dai vecchi dirigenti usciti dalla prigione e dal ritorno di quelli che si erano rifugiati dai comunisti cinesi (come Nonaka Sanzo). Rinasceva così nella piena legalità (1 dicembre 1945). Purtroppo le elezioni del 10 aprile 1946 furono estremamente deludenti. I socialisti ebbero il 17,8 per cento dei voti, mentre i comunisti appena il 3,8 per cento. Liberali e progressisti raggiunsero invece il 43 per cento. Le elezioni del 23 gennaio 1949 segnarono un successo per i comunisti ottenendo il 9,7 per cento dei voti, circa tre milioni di elettori. Il merito fu di Nonaka Sanzo che attraverso gli slogan "rivoluzione pacifica" e "comunismo simpatico" volle dare un’impronta tranquillizzante e umana al comunismo. Gli anni Sessanta e Settanta furono un periodo di duri scontri sociali che videro l’occupazione delle università e i tafferugli degli studenti con la polizia. La sinistra comunista contestava l’alleanza con gli Stati Uniti che erano considerati gli artefici di un nuovo imperialismo. Le vicende della guerra del Vietnam sembravano legittimare queste critiche. Negli anni Ottanta il benessere sembrava far dimenticare le diatribe della politica. Ma gli scandali della corruzione avrebbero colpito la classe dirigente, e l’opposizione comunista non avrebbe mancato l’occasione di condannare e mostrare le deformazioni del potere. Ma il comunismo doveva fare i conti con la storia, e il crollo dell’Unione Sovietica sembrava intonare il requiem per i seguaci di Marx. Questo scossone politico non sembrava però colpire le fondamenta del Partito Comunista in Giappone che veniva criticato per la sua arretratezza sulle posizioni marxiste di fine Ottocento. Ma era questa genuinità e arcaismo del comunismo giapponese che lo preservava dalle crisi ideologiche che colpirono gli altri partiti della sinistra. Essersi radicati ai valori della III Internazionale aveva significato non essere scesi a compromessi con i regimi sovietici, cubani e cinesi. Quest’ultimo recentemente convertitosi al capitalismo più bieco sostenuto dalla dittatura del partito unico.<br />Cosa rimane del comunismo giapponese? In Europa si parla di comunismo come di un fantasma del passato. E in effetti così comparve sulla scena mondiale secondo le stesse parole di Marx ed Engels. Però il Giappone è un paese dove si è abituati a convivere con i fantasmi, così come piaceva a Lafcadio Hearn, e si può esser certi che il comunismo non solo non apporterà danni, ma come in passato solleciterà il paese con nuove idee. E se ne avrà la forza, tirerà i fagioli ai nuovi e vecchi orchi come nella tradizione giapponese.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Nihon no rekishi. Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.<br />Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.<br />Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.<br />Engels, Friedrich e Marx, Karl, Manifesto del Partito Comunista. Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1998.<br />Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.<br />Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.<br />Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998.<br />Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-70870325524025214802010-11-19T00:48:00.000-08:002010-11-19T00:51:07.549-08:00Heiwa, la filosofia della paceArticolo sulla filosofia giapponese della pace pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Heiwa.<br /><br />Heiwa. La filosofia giapponese della pace<br />di Cristiano Martorella<br /><br />6 ottobre 2002. Heiwa in giapponese significa pace. Il suo contrario è la guerra. Ma che cos’è la guerra? La guerra sembra la naturale condizione dell’uomo e numerosi etologi hanno cercato di confermare questa opinione con le loro ricerche (1). Eppure non si tratta affatto di una condizione biologica bensì sociale. La guerra degli umani non si riduce a una istintualità animale, ma smuove un’organizzazione sociale e tecnologica caratterizzata da un cinismo e spietatezza incommensurabili. La guerra caratterizza l’uomo a tal punto che i paragoni sostenuti dagli etologi sembrano ridicoli motti di spirito. Topi e formiche sono stati invocati a testimonianza della tesi che vorrebbe spiegare la guerra con basi biologiche. Purtroppo nessuna specie animale ha mai raggiunto le vette dell’umanità nell’esecuzione dello sterminio di massa. Il salto qualitativo operato dall’uomo è tale che ignorarlo significa fingere nel modo più impudente. Accanto alla spiegazione biologica della guerra, ha continuato a ricevere consensi la spiegazione economica che interpreta i conflitti come esigenze drastiche del mercato (2). Se un paese non è nostro cliente bisogna invaderlo e costringerlo con la forza. Ci auguriamo che questa logica non passi dalla macroeconomia alla microeconomia.<br />Queste spiegazioni, sotto alcuni aspetti falsamente raziocinanti, rivelano una serie di incoerenze che tentano di nascondere la responsabilità umana della guerra. Inoltre si tralasciano i cinici vantaggi (non soltanto economici) del conflitto. Perciò è utile segnare alcuni punti:<br /><br />1) La guerra è un atto volontario;<br />2) La guerra è facile da avviare;<br />3) La responsabilità della guerra può essere attribuita agli altri (il nemico);<br />4) La guerra crea coesione interna (coesione sociale);<br />5) La guerra sospende molte regole da rispettare (non rubare, non uccidere, non stuprare, eccetera).<br /><br />Insomma, perché bisogna fingere che non esistano questi motivi ben utili all’esercizio della guerra? Il sotterfugio è rivelato ai punti 1 e 2. La guerra non è inevitabile, piuttosto è un atto volontario estremamente facile da avviare. I punti 3 e 5 sono comodi per nascondere nella formalità gli squilibri della psiche umana che ancora non tollera le regole della convivenza civile perché costituite su basi ipocrite e artificiali. La guerra è la più grande occasione di sfogo a qualsiasi pulsione aggressiva, ma è anche uno strumento politico. Ed è questo miscuglio di burocrazia e organizzazione con tensione ed eccitazione a costituire la natura autentica della guerra. In conclusione, la guerra è la forma burocratica e politica (3) di un conflitto e un’incoerenza interiore dell’umanità. Il buddhismo propone perciò come soluzione un miglioramento spirituale da applicare all’individuo. Bisogna intervenire sulla persona per ottenere un concreto e durevole cambiamento sociale.<br />L’insieme di dottrine eterogenee a sostegno di questa tesi è ciò che noi chiamiamo "la filosofia giapponese della pace". Non è paradossale, anzi ne è l’origine, che questa filosofia nasca nel paese che ha vissuto la circostanza storica della costituzione della nobile casta di guerrieri (bushi) feroci e determinati, e peggiore, il meschino militarismo del Novecento. Chi ha conosciuto le aberrazioni della guerra desidera ardentemente che esse rimangano un ricordo del passato. Purtroppo al momento attuale non è così.<br />Sicuramente è stato un errore non capire la necessità dell’educazione alla pace. L’insegnamento ha peccato enormemente nel ritenere trascurabile ciò che sembrava già acquisito. E qui ritorna il punto su cui insiste il buddhismo, e particolarmente la Soka Gakkai. La pace deve essere un valore da trasmettere e inserire nella formazione dell’individuo. Così si esprime Ikeda Daisaku che ricorda l’insegnamento di Toda Josei.<br /><br />"Toda osservò: I sistemi di governo e le istituzioni sociali non furono create per competere e lottare tra loro. Furono concepite e adottate per accrescere il benessere dell’umanità. […] Quando la filosofia e la religione cadono nell’errore e nel disordine, significa che la saggezza del popolo si è appannata. Secondo il principio della vera entità di tutti i fenomeni e dell’unità della vita e del suo ambiente, ciò determina caos e disarmonia nella vita creando disordine e contrasti nell’ambiente, ovvero nella società e nella nazione." (4)<br /><br />Ikeda Daisaku insiste poi sulla necessità di fondare una nuova filosofia, una filosofia universale della pace.<br /><br />"Abbiamo assistito alla caduta del comunismo in un’epoca già caratterizzata da una dilagante assenza di filosofia. Vediamo che ovunque […] dai paesi del terzo mondo in lotta contro la povertà alle nazioni industrializzate con tutti i loro problemi, in breve in tutto il mondo contemporaneo che colloca il rendimento economico al di sopra di tutto, il genere umano sente la necessità di una filosofia nuova ed efficace. La gente avverte un vuoto spirituale ed è alla ricerca di qualcosa che lo colmi, qualcosa che possa ridare energia e speranza a un’esistenza sempre più fragile e mortificata. "(5)<br /><br />La filosofia giapponese della pace fonda i suoi princìpi sull’insegnamento del buddhismo. Toda Josei aveva indicato l’esigenza che il buddhismo non fosse limitato al campo dottrinale della religione, ma venisse applicato concretamente estendendo la sua influenza nella sfera sociale. Poiché il buddhismo professa un cambiamento universale partendo dal cambiamento del singolo individuo, è tramite l’educazione che si può pervenire al più alto dei risultati. Ed è ciò che questi autori chiamano "rivoluzione umana" (ningen kakumei).<br /><br />"Una grande rivoluzione nel carattere di un solo uomo permetterà di realizzare un cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità." (6)<br /><br />Questa filosofia unisce la prassi e la teoria essendo qualcosa che si pone al di sopra della speculazione dottrinale.<br /><br />"La filosofia della vita descritta da Toda non è frutto di una speculazione teoretica, né frutto di ripetute analisi e sintesi razionali e scientifiche. Allo stesso tempo non è in contraddizione con la scienza e la ragione. Egli la estrasse dalle profondità del Sutra del Loto impegnando ogni energia nell’accanita ricerca della verità. La filosofia di Toda rappresenta la saggezza del Sutra del Loto: non ci informa soltanto sulla natura della vita, ma ha il potere di cambiare il nostro modo di pensare, di indurre nella nostra quotidianità un senso di speranza, di disporci all’azione. E’ una filosofia pragmatica che fa scaturire la nostra forza vitale." (7)<br /><br />Quando si introduce il termine "vita" in una discussione filosofica, si rischia sempre che esso venga frainteso. I filosofi giapponesi intendono la vita come qualcosa che non possa essere riassunto da un’elaborazione intellettuale, qualcosa che non è riducibile a un concetto. La vita è irriducibile, essa non è riducibile a qualsiasi altro concetto. E come fenomeno non è riducibile a nessuna entità trascendentale o spirituale. L’impossibilità di ricondurre la vita e la natura a uno scopo era stata evidenziata da Immauel Kant nella Critica del giudizio.<br /><br />"Della finalità esterna delle cose della natura abbiamo detto avanti che essa non basta ad autorizzarci a considerare queste cose come fini della natura per spiegare la loro esistenza, e ad usare i loro effetti, accidentalmente finali rispetto all’idea, come fondamenti della loro esistenza secondo il principio delle cause finali." (8)<br /><br />Il carattere essenzialmente libero e non finalistico della vita è dunque riconosciuto anche da parte della filosofia occidentale. Ma l’umanesimo professato dalla filosofia giapponese, in cosa si differenzia dall’umanesimo europeo? Saito Katsuji sembra fornirci una risposta netta e precisa.<br /><br />"Il termine "umanesimo cosmico" sottolinea la differenza rispetto alla visione antropocentrica finora dominante, secondo cui tutte le altre forme di vita diverse dalla nostra possono essere sacrificate in nome degli esseri umani." (9)<br /><br />Insomma, un umanesimo profondamente diverso dall’umanesimo europeo. Questa diversità sembra superare quelle difficoltà politiche e ideologiche che alcuni autori vicini ai movimenti no-global hanno messo in luce. Ci riferiamo in particolare a Michael Hardt e Antonio Negri che hanno cercato di riscrivere la storia mondiale criticando il concetto di modernità (10). L’umanesimo giapponese è un umanesimo privo di ideologia e molto pragmatico. Esso assomiglia all’approccio che lo scrittore Alessandro Baricco ha mostrato occupandosi dei problemi della globalizzazione.<br /><br />"Le cose sono più complicate di quanto sembrino. La rassicurante prospettiva di uno scontro frontale, buoni contro cattivi, è un’astrazione teorica, non c’entra col mondo reale, e serve solo a motivare i soldatini di un esercito obsoleto. […] Sto cercando di suggerire che sono problemi veri di cui però sappiamo ancora poco, perché abbiamo studiato molto le scarpe e i film ma non abbiamo studiato a sufficienza noi stessi: conosciamo tutti i segreti delle multinazionali, ma non abbiamo un’idea chiara dell’uomo che sta di fronte a loro." (11)<br /><br />Ecco che cos’è l’umanesimo del XXI secolo: la riscoperta di un soggetto della storia che tendiamo a dimenticare. Ma l’umanesimo giapponese (o umanesimo cosmico) è anche un superamento del dualismo uomo/natura poiché viene recepito l’insegnamento della filosofia orientale.<br />La filosofia giapponese del Novecento ha contribuito notevolmente alla considerazione della pace come meta prioritaria da raggiungere. Mentre i politici sceglievano lo strumento delle armi per imporre con la forza un equilibrio e una pace unilaterale, molti studiosi si interrogavano sulle possibilità che la filosofia poteva offrire alla prospettiva pacifista. Tanabe Hajime raggiunse i risultati più ragguardevoli. Egli teorizzò una "filosofia che non è filosofia" (tetsugaku naranu tetsugaku). Tanabe intendeva riconoscere i limiti della ragione ponendo l’esistenza umana al di sopra della speculazione e del calcolo che è capace di giustificare ogni crimine. Dunque prospetta una autonegazione della filosofia ricorrendo al principio buddhista del nulla (mu). Questa negazione della filosofia non è una negazione in senso distruttivo, ma una rinascita (12). Così Tanabe Hajime si rifà all’insegnamento del maestro buddhista Shinran (1173-1262) e alla nozione di tariki (il potere salvifico di Buddha attraverso gli sforzi comuni dell’umanità).<br />In conclusione, la filosofia giapponese è un’autocritica alla filosofia medesima e un’apertura alla diversità. La novità della filosofia giapponese consiste appunto in questa attenzione nei confronti della pace (attenzione altrove mancata).<br /><br /><br />Note<br /><br />1. Queste interpretazioni sono state sostenute soprattutto in base alle considerazioni delle opere di Konrad Lorenz. Cfr. Lorenz, Konrad, Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano, 1969. Durissima la critica di Schmidbauer che accusa di "aspetti ideologici occulti" le spiegazioni biologiche dei fenomeni sociali. Cfr. Schmidbauer, Wolfgang,Uomo e natura. Anti-Lorenz, Laterza, Roma-Bari, 1978. Anche Fromm condanna gli eccessi di questi etologi in un classico sull’argomento: Cfr. Fromm, Erich, Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondadori, Milano, 1975.<br />2. Karl Marx è stato il sostenitore più convincente e attendibile di queste spiegazione. Il periodo di espansione coloniale in cui viveva Marx aveva sicuramente una corrispondenza con quanto affermato. Ma il modello marxiano è strettamente storico (come sostenuto dal medesimo autore) e non può essere considerato universalmente. Cfr. Marx, Karl, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1950; Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1957; Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974.<br />3. L’idea diffusa che la guerra accompagni la vita dell’uomo è falsa. Fra molti popoli primitivi la guerra è assente (questo è il caso degli eschimesi o inuit). La guerra progredisce e diviene pervasiva con l’espandersi della politica. Karl von Clausewitz affermò che la guerra "è una continuazione della politica con altri mezzi". L’esperto Clausewitz ha perfettamente ragione. La guerra è una forma della politica. Egli è decisamente chiaro su questo versante. "Affermiamo dunque che la guerra non rientra nel campo delle arti e delle scienze, ma in quello della vita sociale. […] Più che a qualunque arte è paragonabile al commercio che è anche un conflitto di interessi, ma più vicina ancora le sta la politica". Cfr. Clausewitz, Karl, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970. Come lettura critica si possono consultare parecchi volumi di orientamento diverso: Jean, Carlo, Il pensiero strategico, Franco Angeli, Milano, 1985; Bouthoul, Gaston, Le guerre, Longanesi, Milano, 1951; Stamp, Gerd, Clausewitz nell’era atomica, Longanesi, Milano, 1966; Aron, Raymond, Penser la guerre, Clausewitz, Gallimard, Paris, 1976.<br />4. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.134.<br />5. Ibidem, p.1.<br />6. Ibidem, p.142.<br />7. Ibidem, p.21.<br />8. Cfr. Kant, Immanuel, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.437.<br />9. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.12.<br />10. Cfr. Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002.<br />11. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e il mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, p.59.<br />12. Cfr. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami, Tokyo, 1946.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.<br />Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.<br />Ikeda, Daisaku, La rivoluzione umana, Esperia Edizioni, Milano, 1994.<br />Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Esperia Edizioni, Milano, 1999.<br />Sakaiya, Taichi, Taihen na jidai, Kodansha, Tokyo, 1998.<br />Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.<br />Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999.<br />Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-72669698991477533632010-11-18T01:36:00.000-08:002010-11-18T01:37:37.626-08:00Kojo, la fabbrica giapponeseArticolo sul sistema produttivo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Kojo, la chimerica fabbrica del samurai<br />di Cristiano Martorella<br /><br />4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.<br />L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.<br />Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.<br />Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.<br />Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).<br />Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.<br /><br />"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."<br /><br />Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.<br />Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:<br /><br />" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."<br /><br />Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?<br />Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.<br />Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).<br />Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.<br />La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).<br />Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.<br />Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.<br />Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.<br />Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.<br />Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.<br />Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.<br />Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.<br />Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-50398751216631113082010-11-18T01:33:00.000-08:002010-11-18T01:35:45.365-08:00Chonin, i commerciantiArticolo sul ruolo fondamentale dei commercianti nell'economia giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Chonin. Commercio e cultura<br />L’importanza dei commercianti nella cultura ed economia giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />20 luglio 2003. Il ruolo svolto dai commercianti (chonin) nel Giappone premoderno e moderno ha avuto la giusta attenzione da parte della saggistica. Purtroppo l’immagine comune e superficiale che si ha del Giappone è fossilizzata sulla rappresentazione del guerriero samurai, offuscando gli altri protagonisti della storia. Si può però rimediare facilmente a tale falsa impressione ricordando quanto è stato evidenziato dagli studiosi più avveduti.<br />Sono due i punti da rimarcare per una corretta conoscenza della storia economica giapponese:<br /><br />1) La dinamica e mobilità sociale fra le classi;<br />2) Il processo di sviluppo capitalistico avvenuto dal basso in modo spontaneo.<br /><br />La mobilità sociale del Giappone premoderno è stata così elevata quanto dimenticata. Eppure fu questo fenomeno che causò le trasformazioni della struttura economica e sociale del paese. Questa trasformazione avvenne in modo incontrollabile da parte del potere politico shogunale che non seppe adeguarsi e si ritrovò ad assistere all’ascesa della borghesia mercantile (chonin). Gli shogun dell’era Tokugawa ebbero un atteggiamento ambivalente nei confronti della borghesia. A livello ideologico la condannarono sostenendo la validità dei princìpi neoconfuciani e rilanciando le scuole di pensiero conservatrici (Sushigaku, Shoheiko, etc.). Anche ciò produsse però l’effetto contrario perché il neoconfucianesimo giapponese favorì la razionalizzazione negli studi che furono poi alla base della rangaku (scienza occidentale). A livello pratico i Tokugawa gettarono le fondamenta dello sviluppo urbano tanto da creare a Edo, poi Tokyo, il modello metropolitano. Bisogna comunque sottolineare che senza l’unificazione politica del Giappone operata dai Tokugawa, non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico e il superamento del modello rurale. Lo storico Yamamura Kozo (1) ha chiarito con dovizia e precisione come lo sviluppo economico del Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) fu un processo spontaneo nato dal basso per merito della borghesia prosperata nel periodo Edo (1603-1867). Risulta così falsa la tesi che sostiene la modernizzazione dell’economia giapponese condotta dall’alto dalle autorità governative, o peggio, indotta dalla penetrazione degli occidentali. Già Edwin Reischauer (2) aveva notato come il feudalesimo giapponese avesse caratteristiche molto simili a quello europeo, e sappiamo quanto questo genere di organizzazione sociale, che favoriva la formazione di centri urbani, fosse importante per creare le condizioni per l’avvio del capitalismo mercantile. Perciò lo sviluppo capitalistico giapponese fu assolutamente autoctono e non indotto dall’esterno. Sorprende che ancora oggi vi sia qualcuno che sostenga la tesi dell’introduzione dall’esterno del modello capitalistico negando di fatto che i giapponesi siano gli artefici della propria storia. Si tratta comunque di una tesi con forti influenze ideologiche che presuppone il primato del sistema occidentale nella sua unicità. Così non è, ed è bene ribadirlo.<br />Altra caratteristica importante della storia nipponica fu la forte mobilità sociale dal XVI secolo in poi, ovvero il passaggio a classi diverse dal proprio lignaggio e la commistione dei diversi strati sociali che provocava trasformazione, progresso ed evoluzione culturale ed economica. Risulta infatti chiaro e ben evidente che l’immobilità sociale sia antitetica a un sistema capitalistico basato sul libero mercato. Il grande rimescolamento sociale del XVI secolo fece coniare agli storici giapponesi l’espressione ge koku jo (il basso vince l’alto), un’espressione molto efficace ricordata anche dall’orientalista Thomas Cleary. La mescolanza fra le classi avvenne secondo due direzioni. Prima della separazione di contadini e guerrieri operata da Toyotomi Hideyoshi nel 1588 e chiamata heino bunri, c’era una commistione fra samurai di campagna (goshi) e contadini armati. Un fenomeno ricordato da Kurosawa Akira nel film I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) col personaggio di Kikuchiyo interpretato da Mifune Toshiro. Aspetto ironico della faccenda è che la divisione fu operata da Toyotomi Hideyoshi, uomo di umili origini contadine che era asceso al potere per meriti militari acquisendo il titolo di daijo daijin (ministro), e la nobiltà tramite il sistema dell’adozione (yoshi). L’altro movimento molto più ampio fu quello che avvenne dopo l’organizzazione del XVII secolo con la separazione in quattro classi (shinokosho). Gli uomini di città, ossia i mercanti e la borghesia, furono chiamati chonin. Il potere shogunale cercò di mantenere forzatamente la separazione fra le classi così da garantire il governo della popolazione che non poteva formare un fronte compatto e ribellarsi. Il declino dei Tokugawa fu provocato dall’impossibilità di mantenere questa immobilità sociale. Infatti i samurai si mischiarono ai chonin godendo dei vantaggi della vita urbana e molti di essi cambiarono classe divenendo chonin. I samurai che non cambiarono classe ebbero comunque forti contatti con i borghesi, e come i ronin, samurai senza padrone, vivevano in mezzo a loro. I lavori svolti dai ronin per sopravvivere, come l’insegnamento delle lettere e delle arti, provocarono una diffusione molto vasta della cultura non più riservata a una sola classe. Gli stessi chonin si recavano a teatro per assistere alle storie che vedevano come protagonisti i samurai. Lo spostamento dell’impiego dell’arte dall’aristocrazia alla borghesia è un fenomeno avvenuto anche in Europa nel XIX secolo dopo le trasformazioni sociali avviate dalla rivoluzione francese. In Giappone ciò accadde molto prima, nel XVII secolo del periodo Edo. A ciò si aggiungeva, ed è l’aspetto più importante, la formazione di un tessuto urbano altamente produttivo e con caratteristiche borghesi nettamente marcate. Ciò significa che l’economia dell’epoca si fondava sulla produzione di beni con elevato valore aggiunto, un tratto caratteristico delle società capitalistiche. Tuttavia restava ancora arretrato il sistema monetario, in parte basato sul riso e su diseguali monete d’oro, argento, rame e ferro con cambi vari e disomogenei. Perciò dobbiamo attendere l’era Meiji (1868-1912) per vedere uno sviluppo completo del capitalismo. Comunque la coincidenza nel tessuto urbano del sistema produttivo (economia) e del mondo dell’arte (cultura) nel Giappone del periodo Edo (1603-1867) è un aspetto estremamente significativo. Soprattutto indica la forza del rapporto cultura/economia nella storia giapponese. Passiamo a ricordare quanto la cultura della borghesia (chonin bunka) fosse dominante nonostante l’avversione dell’ideologia delle autorità governative. La cultura Genroku (1688-1704) fu rappresentata dalla letteratura del Kamigata e dai nomi di Ihara Saikaku, Matsuo Basho e Chikamatsu Monzaemon. Nato da una famiglia di commercianti di Osaka, Ihara Saikaku divenne celebre per le sue opere di eccezionale realismo. Nella serie di racconti intitolati Nippon eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone, 1688), egli narra le vicende di persone arricchite o impoverite. Ihara Saikaku ammette in modo spudorato e sincero l’attitudine dei chonin con la seguente frase: Yo ni zeni hodo omoshiroki mono wa nashi (In questo mondo non c’è niente di più interessante dei soldi). L’aspetto che stiamo sottolineando è la coincidenza di cultura ed economia che traevano la propria forza dallo stesso tessuto sociale. Si pensi a Ejima Kiseki (1667-1736), un mercante che divenne scrittore, oppure un intellettuale poliedrico come Hiraga Gennai (1728-1779) che fu ronin, ceramista, botanico, inventore e scrittore. Costoro, con le dovute differenze di estrazione sociale, vivevano però nello stesso mondo e condividevano la stessa vita urbana dell’epoca. La drammaturgia e la narrativa erano finanziati dai ricchi chonin. Come nel caso di Ejima Kiseki, gli editori (per questo scrittore fu Hachimonjiya) erano enormi librerie che sovvenzionavano gli autori. Il sistema produttivo prosperava grazie alla creatività dei cittadini borghesi e l’espansione capitalistica era avviata da tale spirale virtuosa in cui chi produceva era anche consumatore (ciò è completamente diverso dal sistema rurale dove l’aristocrazia era parassitaria). La nascita dell’economia giapponese avvenne dal basso e in modo spontaneo. Così fu per la cultura, tanto che si può dire che la cultura pop giapponese più diffusa fu quella dell’epoca Edo, se vogliamo usare una terminologia attuale e di moda. È bene ricordare che questa idea della nascita della cultura pop nell’epoca Edo è stata proposta dall’architetto Ueda Atsushi. L’autorevole storico Yamamura Kozo, spiega in modo molto chiaro il concetto della nascita dal basso dell’economia e cultura giapponese.<br /><br />"È fuori dubbio che il Giappone sia un paese moderno e che faccia parte dell’Asia: la conclusione evidente è che esso dovette modernizzarsi secondo proprie modalità. Un kimono in fibra sintetica richiama alla mente tanto l’abbigliamento di un samurai quanto l’architettura di un impianto chimico gigantesco e molto complesso: non è per questo necessario chiamarlo un tailleur, né definire magia occidentale un processo chimico. Al pari di un kimono di rayon, l’economia giapponese è un prodotto dell’industrializzazione, ma la modernizzazione che l’ha accompagnata non ha occidentalizzato il paese sino al punto da cancellare completamente il retaggio peculiare della sua storia e della sua cultura. Se questo è il motivo principale del fascino che la storia economica del Giappone esercita su di noi, va aggiunto che la capacità di divenire moderno senza perdere il senso della propria eredità nazionale è in fin dei conti il segreto del successo industriale dell’arcipelago." (3)<br /><br />Nonostante sia evidente a tutti, il pregiudizio che i giapponesi abbiano copiato dagli occidentali, sia le strutture sociali sia le tecniche, è difficile da estirpare. Ammettere che il modello occidentale di civiltà non è l’unico e il migliore è ancora troppo difficile o addirittura un tabù (4). Così si impedisce la comprensione della storia economica, ma vi si può porre rimedio.<br /><br /><br />Note<br /><br />1. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino,1980.<br />2. Cfr. Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994, p.44.<br />3. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino, 1980, p.321.<br />4. In proposito ha ricevuto apprezzamento da parte degli economisti la denuncia di questo tabù da abbattere. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia, XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.<br />AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.<br />Allen, George Cyril, Il Giappone dal feudalesimo alla grande industria, Giannini Editore, Napoli, 1973.<br />Beonio Brocchieri, Paolo, Religiosità e ideologia alle origini del Giappone moderno, Il Mulino, Bologna, 1993.<br />Dunn, Charles, La vita quotidiana nel Giappone del periodo Tokugawa, Fabbri Editori, Milano, 1998.<br />Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.<br />Ihara, Saikaku, Storie di mercanti, UTET, Torino, 1983.<br />Ihara, Saikaku, Vita di un libertino, Guanda, Parma, 1988.<br />Landes, David, La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti, Milano, 2002.<br />Martorella, Cristiano, La società aperta e il caso Giappone, Relazione del corso di storia della filosofia contemporanea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1997.<br />Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.<br />Matsumoto, Ken’ichi, Nihon no kindai: kaikoku ishin, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1998.<br />Miyawaki, Mayumi, Otoko to onna no ie, Shinchosha, Tokyo, 1998.<br />Ono, Yoshiyasu, Keiki to keizai seisaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1998<br />Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994.<br />Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.<br />Takeshita, Toshiaki, Lineamenti di storia della cultura giapponese, Clueb, Bologna, 1994.<br />Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.<br />Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-43293363363912347062010-11-18T01:31:00.000-08:002010-11-18T01:33:40.864-08:00Burujoa, la borghesia giapponeseArticolo dedicato alla borghesia e allo sviluppo economico del Giappone pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Burujoa.<br /><br />Burujoa. La borghesia giapponese<br />Storiografia, ideologia e interpretazione<br />di Cristiano Martorella<br /><br />24 luglio 2005. La parola giapponese burujoa è un gairaigo (termine d’origine straniera) derivata dal francese bourgeios e introdotto attraverso la saggistica socialista all’inizio del Novecento (1). Nella storiografia occidentale la borghesia giapponese è stata vittima di fraintendimenti e dissimulazioni che ancora oggi fanno sentire il loro peso. Addirittura la classe media (chusankaikyu) sembra sparita dai libri di storia per dare spazio a valorosi, quanto mai mitici, samurai. Per ripulire la narrazione degli eventi dalle mistificazioni che affliggono la storiografia, bisogna comprendere innanzitutto il pregiudizio ideologico che vizia ogni considerazione. L’idea di fondo è che il Giappone potesse imitare l’Occidente, pur senza possederne le strutture sociali, soltanto se ciò fosse stato imposto dai politici dall’alto. Insomma, questo è il teorema dello sviluppo dall’alto propugnato dalle classi politiche che ignora completamente la borghesia giapponese e la sua storia. Questo teorema risulta estremamente fuorviante quando applicato alla storia dell’economia del Giappone. Economia che non è nata dalla mente dei politici, come vorrebbero far credere alcuni manuali scolastici, ma è il risultato dell’opera di milioni di lavoratori, del loro ingegno e del loro spirito imprenditoriale. Al contrario, dal 1925 al 1945, la classe dirigente ha ritardato lo sviluppo dell’economia del Giappone concentrando le risorse sull’industria pesante e militare, cercando di ottenere le fonti di approvvigionamento attraverso le conquiste coloniali al posto del commercio, trascinando il paese in guerre impossibili da vincere. Dal 1993 al 2001 è stata la classe dirigente che ha preso provvedimenti tali da inasprire la crisi economica, aumentando il debito pubblico e peggiorando i debiti delle banche, oltre a rendersi protagonista di scandali per corruzione. Attribuire meriti a politici capaci di ogni ignominia richiede uno sforzo di immaginazione davvero disumano. Eppure la storiografia ufficiale abbonda di simili voli della fantasia. Il caso più famoso e significativo è rappresentato da Franco Mazzei, autorevole storico e docente dell’Università di Napoli. Nel XII volume de La storia (2) edito dal quotidiano "La Repubblica", egli ripresenta la consueta teoria dello sviluppo dall’alto attraverso il confucianesimo aristocratico, rigettando l’importanza del ruolo svolto dalla borghesia mercantile (chonin). Franco Mazzei nega il ruolo predominante della borghesia commerciale nello sviluppo capitalistico, insistendo sulla funzione dirigistica del governo Meiji, considerato il vero ispiratore della rivoluzione borghese e principale artefice del decollo dell’economia del Giappone nel XIX secolo (3).<br />In effetti manca da parte di Franco Mazzei la discussione delle differenti teorie, propendendo a favore della tesi dello sviluppo dall’alto soltanto in base a una preferenza personale. La quantità degli studi contro la teoria dello sviluppo giapponese diretto dall’alto è però enorme, e mina la credibilità di molti storici tuttora ancorati a vetuste narrazioni e interpretazioni fittizie. Sicuramente il più fiero oppositore alla concezione della rivoluzione borghese guidata dal governo è stato Claudio Zanier, autore di un volume fondamentale (4) che mostra e smonta gli errori dei colleghi. Eppure il suo lavoro, come tanti altri, è stato occultato e dimenticato perché troppo scomodo.<br />Claudio Zanier ricorda le importanti riforme politiche ed economiche avvenute durante il periodo Edo (1603-1867) che furono una efficiente opera di razionalizzazione (5). I governi Tokugawa, molto prima della riforma Meiji, avviarono un processo che permise la formazione di una struttura sociale borghese e del capitalismo mercantilista. Le riforme fondamentali dell’epoca Edo furono la formazione di un catasto nazionale, la riforma fiscale e il disarmo dei contadini. Inoltre si attuarono le condizioni per far prosperare l’economia di mercato attraverso due secoli di pace continua e il commercio. Questo processo si sviluppò spontaneamente perché non era affatto intenzione dei governanti Tokugawa di favorire la borghesia e gettare le basi per la nascita del capitalismo, forma economica completamente ignota ed estranea alla mentalità degli shogun. Eppure fu proprio in queste condizioni che la borghesia giapponese trovò l’ambiente adatto allo sviluppo. Ciò che si verificò, per molti versi, era in contrasto con le intenzioni dei Tokugawa. Essi si adoperarono per la netta divisione in quattro classi (shimin) costituite da guerrieri, contadini, artigiani e commercianti (shi, no, ko, sho). Tuttavia l’epoca Edo conobbe una notevole mobilità sociale, e la crescente importanza e influenza dei chonin (commercianti) convinse molti samurai a cambiare classe, scegliendo la vita del mondo degli affari. Caso emblematico fu Mitsui Takatoshi (1622-1694), fondatore dei negozi Mitsui, famoso per essere stato tra i primi a rinunciare al rango di samurai per diventare commerciante. Sicuramente rappresentò l’evento più importante, ma non era un caso isolato, al contrario era abbastanza frequente.<br />Questa mobilità sociale insieme al dinamismo dei commercianti che costituirono un’autentica cultura (Genroku bunka) alimentata da attori di teatro, musicisti, poeti e scrittori, fornisce la negazione assoluta dell’idea dello sviluppo dall’alto. Soprattutto è l’affermazione del valore e del ruolo della borghesia mercantile giapponese, divenuta poi borghesia imprenditoriale nel XIX secolo.<br />L’economia del Giappone dell’epoca Edo (1603-1867) attuò l’accumulazione di capitali e risorse necessari al decollo (take off) dello sviluppo nei secoli successivi. Ovviamente furono i commercianti ad essere protagonisti in questa fase. Piuttosto fu nell’era Meiji (1868-1912) che si evidenziarono le debolezze dell’economia del Giappone causate da una cronica mancanza di capitali. Questo problema del capitalismo senza capitale, era provocato anche dall’indebolimento della borghesia a favore dell’esercito, autentico antagonista e avversario del capitalismo, sostenitore e difensore della concezione rurale della società. La produzione fu concentrata a fini militari, e il commercio limitato escludendo i manufatti inutilizzabili per il conflitto. L’indebolimento della borghesia favorì l’accentramento di potere e la formazione di cricche economiche che impedirono il libero mercato e la concorrenza. Le guerre nascosero la distorsione dell’economia del Giappone, favorendo nello stesso tempo i discorsi di chi sosteneva l’unità nazionale per il conseguimento degli obiettivi militari. Da questa anomalia il Giappone uscì grazie a una radicale sconfitta che eliminò l’esercito e le sue pretese di controllo sulla società. Nelle condizioni di equilibrio e libero commercio del dopoguerra, la borghesia giapponese ebbe la possibilità di incentivare una sana attività imprenditoriale, contribuendo alla straordinaria crescita del Giappone, economia ormai liberata dai ceppi dell’isolamento e delle costrizioni militariste.<br />Questa lettura fa emergere quanto sia pericoloso sostenere l’idea di uno sviluppo guidato dall’alto dalla classe dirigente politica che è stata, in realtà, l’artefice delle distorsioni e disgrazie del Giappone. Mentre l’artefice della crescita economica, la classe media (chusankaikyu) o borghesia media, viene ignorata dalla storiografia.<br />Un’interpretazione altrettanto fittizia è quella di Vittorio Volpi (6) che sostiene l’esistenza di una crisi di identità del Giappone. Però a quale identità si riferisce Vittorio Volpi? Al Giappone dei samurai e delle geisha? Questa interpretazione del Giappone tradizionale non tiene presente dell’esistenza di una classe borghese fin dall’epoca Edo, ignorando completamente la storia. Credere che la cultura giapponese sia soltanto una cultura aristocratica è un errore madornale. Incredibile è che ancora in tanti continuino a sostenerlo.<br /><br />Note<br /><br />1. La traduzione del Manifesto Comunista (Kyosanto sengen) apparve nel 1904, ad opera di Sakai Toshihiko e Kotoku Shusui. La parola francese bourgeois deriva a sua volta da bourg (borgo), così come la parola giapponese chonin (commerciante) da cho (quartiere).<br />2. Cfr. Franco Mazzei. Le riforme Meiji in Giappone, in La storia, vol.XII, par. XII, La Biblioteca di Repubblica, UTET, Torino e De Agostini Editore, Novara, 2004, pp.509-541.<br />3. Ibidem, pp.540-541.<br />4. Cfr. Claudio Zanier, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino, 1975.<br />5. Ibidem, p.55.<br />6. Cfr. Vittorio Volpi, Giappone. L’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Ike, Nobutaka, The Development of Capitalism in Japan, in "Pacific Affairs", vol.XXII, 1949.<br />Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.<br />Miyamoto, Mataji, The Merchants of Osaka, in "Osaka Economic Papers", n.1, vol. VII, 1958.<br />Molteni, Corrado, Debito pubblico e politiche economiche, in Il Giappone che cambia, Atti del XXVII convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2004.<br />Smith, Thomas, The Agrarian Origins of Modern Japan, Stanford University Press, Stanford, 1959.<br />Smith, Thomas, Political Change and Industrial Development in Japan, Stanford University Press, Stanford, 1955.<br />Takahashi, Masao, Modern Japanese Economy since the Meiji Restoration, KBS, Tokyo, 1967.<br />Takekoshi, Yosaburo, The Economic Aspects of the History of the Civilization of Japan, Allen and Unwin, London, 1930.<br />Volpi, Vittorio, Giappone. L’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.<br />Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-47400310923598063272010-11-18T01:28:00.000-08:002010-11-18T01:30:41.040-08:00Yugo, il modello economico giapponeseSaggio sul modello economico giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Yugo, un modello per l'economia giapponese<br />Saggio sociologico sull'economia e la struttura sociale<br />di Cristiano Martorella<br /><br />Il sincretismo culturale<br /><br />Il termine sincretismo (in giapponese yugo) è stato utilizzato, a volte abusato, per definire la peculiarità della società giapponese. Questo concetto è servito per sostenere, anche politicamente, un modello di assimilazione culturale sincretica che conserverebbe la cultura tradizionale (la differenza culturale) sfruttando la tecnica occidentale (la globalizzazione del mercato) secondo il motto: spirito giapponese e scienza occidentale (wakon yosai).<br />Ma la convinzione che il modello nipponico sia una forma di sincretismo (yugo) non è soltanto il prodotto di un’ideologia dominante a sostegno della nazione giapponese. L’idea è tuttavia molto diffusa a livello comune fra i giapponesi. Esiste anche l’espressione "tozai bunka no yugo" (fusione di cultura orientale e occidentale). Distinguere le singole posizioni rispetto alle credenze della collettività ha poco senso in ambito sociologico, poiché l’oggetto di studio è la società e le relazioni sociali nel complesso. Quindi bisogna studiare gli effetti e gli impatti della credenza nella società indifferentemente dal giudizio di valore attribuitole. Anche se il sincretismo nipponico (yugo) fosse un semplice artificio retorico, esso è talmente radicato nella mentalità dei giapponesi che non tenerne conto sarebbe ignorare un fattore determinante dell’organizzazione sociale giapponese.<br />Max Weber aveva insegnato quanto fosse importante riconoscere i valori operanti in una società senza che i nostri giudizi influenzassero l’analisi. In questo senso conviene davvero ispirarsi ai dettami della sociologia comprendente (verstehende Soziologie).<br />L’ascesa dell’economia nipponica nel XX secolo ha attirato l’attenzione di molti studiosi, ma la ricerca scientifica ha fornito risultati contraddittori. Non si è giunti nemmeno ad essere concordi sull’esistenza di un modello economico specificamente giapponese. Si è arrivati invece al punto di mettere in dubbio la stessa storiografia che risentendo gravemente delle diverse impostazioni, riceve l’accusa di subire forti influenze ideologiche (1).<br />Ci sembra opportuno riportare questi problemi nell’ambito della sociologia e cercare di impostare l’analisi alla luce della questione metodologica. Se la sociologia si è rivelata incapace nel descrivere compiutamente l’economia giapponese, tale debolezza è l’indizio di una carenza degli strumenti scientifici e del metodo di ricerca.<br /><br />Lo studio oggettivo<br /><br />Lo studioso che ha affrontato le problematiche delle scienze sociali in maniera compiuta fu Max Weber (2). Weber ha risolto in modo brillante la difficoltà dell'oggettivazione nelle scienze storico-sociali. Poiché nello studio dell'economia giapponese si riscontra la medesima difficoltà, è indispensabile ripercorrere l'insegnamento weberiano. La scientificità di molte tesi attuali è minata dalla mancanza della distinzione weberiana fra il giudizio di valore (giudizio personale e soggettivo) e l'affermazione di fatto (constatazione dei fatti). L'oggettivazione non è un'utopia, ma un processo cognitivo. Chi rifiuta l'attività scientifica come prodotto teorico di un'elaborazione intellettuale che interagisce con la realtà, si pone fuori dalla scienza. Questo erroneo atteggiamento molto comune fra gli studiosi comporta l'assunzione delle proprie opinioni elevate a verità assolute indiscutibili. Eppure non si fa scienza (epistéme) attraverso l'opinione (doxa). La scienza implica una considerazione dei fatti, una visione complessiva e non parziale, la verifica delle teorie. Tutto ciò può avvenire, secondo Weber, soltanto impostando una corretta metodologia di ricerca. Le scienze storico-sociali implicano una relazione ai valori. I valori di una società devono essere studiati nell'ambito delle relazioni sociali e materiali, così da rendere intelligibile il fenomeno storico che si vuole indagare. Se lo studioso fornisce una preventiva valutazione dei fatti storico-sociali, esprimendo un giudizio personale, impedisce alla ricerca di avanzare nella spiegazione dei nessi causali. Come dice Weber, questo genere di dogma è soltanto una "questione di fede".<br />Weber propone quindi una migliore definizione degli strumenti d'indagine scientifica. Egli definisce il tipo ideale (Idealtypus) come un costrutto intellettuale capace di elaborare la complessità empirica fornendo una lettura perspicua dei fenomeni. Ma la validità di un costrutto idealtipico non può essere accertata a priori. Il tipo ideale è uno strumento di lavoro e la sua validità viene accertata in base all'efficacia nella comprensione dei concreti fenomeni culturali.<br />Poiché Weber riconosce l'influenza del pensiero di un'epoca sullo studioso, egli non sfugge affatto alla problematicità dell'oggettivazione. Non si lascia però ingannare da facili e banali contrapposizioni che liquidano il concetto stesso di oggettività. Secondo Pierre Bourdieu la struttura sociale non è solo un condizionamento che determina l'azione degli individui, ma è anche il prodotto della loro azione che trasforma la struttura stessa (3).<br />L'oggettività è la relazione fra soggetto e oggetto. Essa va trattata come tale escludendo quella falsa e fuorviante concezione dell'oggettività come ipostatizzazione e neutralizzazione del rapporto soggetto/oggetto. Questa falsa oggettività nasconde il soggetto conoscente. Estremamente interessante è notare come tale concezione del soggetto e dell'oggetto come relazione processuale coincida con la stessa elaborata dal filosofo Nishida Kitaro (4). Il soggetto può conoscere se stesso soltanto tramite l'oggetto, e apprendere dell'oggetto tramite il sé. Non si tratta di una coincidenza. Nishida e Weber erano debitori di una concezione elaborata in modo ampio e sofisticato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel.<br />In un ambito epistemologico, la scienza sociale deve riconoscere che la visione e l'interpretazione sono una componente dell'intera realtà del mondo sociale. Sembra superfluo mettere in evidenza l'enorme differenza fra chi sostiene verità indiscutibili e chi propone modelli teorici che interagiscono con la realtà. Eppure gli studi sull'economia giapponese hanno risentito negativamente del primo atteggiamento (5).<br />Già negli anni '70, l'antropologa e sociologa Nakane Chie rimproverava agli occidentali di usare pedissequamente i modelli teorici elaborati per le società occidentali senza tenere in considerazione la realtà giapponese (6). Nakane cerca di individuare le peculiarità strutturali della società nipponica. Innanzitutto osserva che la coscienza di gruppo giapponese dipende dalle relazioni interpersonali (frame o struttura) piuttosto che dall'attributo (status). I giapponesi tenderebbero a costituire dei gruppi che sarebbero poi il contesto delle loro attività. I vincoli di parentela fissati dallo status sarebbero poco determinanti, perfino nelle famiglie tradizionali (ie) dove prevaleva il criterio di gruppo residenziale (si consideri l'importanza della moglie e della nuora superiore ai parenti trasferitisi altrove, ma anche l'usanza delle adozioni). Il passaggio dalla struttura sociale all'economia è fin troppo facile. Risulta agevole individuare questa tipologia negli zaibatsu, e poi nei keiretsu.<br />Nakane Chie ritiene che il gruppo corporativo fondato su una struttura di relazioni interpersonali sia il principio edificativo della società giapponese. Si potrebbe obiettare che questa visione sia troppo appiattita sul modello giapponese degli anni '70 e non tenga presente la dinamica sociale sull'asse diacronico. Comunque, Nakane non sbaglia nell'individuare un fattore giapponese e nel suggerire di studiare le modalità della struttura sociale nipponica secondo criteri specifici. Una proposta che ha suscitato polemiche.<br />Attualmente la situazione non è migliorata. Si assiste, anzi, allo scontro fra teorici della specificità giapponese (nihonjinron) e teorici dell'indifferenza (chi sostiene che la società giapponese vada spiegata con le stesse categorie usate per l'Occidente). Si tratta di un conflitto chiuso e interno a se stesso. I risultati sono abbastanza evidenti: l'incapacità di fornire teorie e spiegazioni sulla società giapponese che non siano banali stereotipi. Come ha osservato Nakane Chie, gli occidentali sono stati abilissimi a sostenere un conflitto culturale fra la tradizione giapponese e la società moderna. Tanto abili da sostenere la medesima teoria per più di un secolo attraversando tutti i mutamenti sociali, economici e politici del Giappone con uguale indifferenza. Affermare che questa sia una grave miopia è il minimo. Il Giappone non è un paese misterioso e incomprensibile, è soltanto il caso evidente di una cattiva impostazione metodologica degli studiosi.<br />Per evitare di trascinarci in questo pantano di inconcludenti polemiche, bisogna impostare necessariamente la questione metodologica della società giapponese nell'ambito della sociologia.<br /><br />Nihonjinron e agire razionale<br /><br />Le scienze sociali riconoscono lo sviluppo storico della società diversificato secondo differenti variabili. La specificità di ogni società è dunque la premessa e non il risultato dell’indagine scientifica. E tale condizione è dettata dallo svolgimento storico che non è regolato da nessuna legge deterministica (7). Quindi il concetto di nihonjinron (specificità culturale giapponese) è superfluo, ma non è falso. Si tratta di una banalità (ogni società ha una sua specificità) che si dimostra particolarmente debole quando viene assunta come principio esplicativo astratto, non contestualizzato e metastorico. La storia economica del Giappone rispecchia un proprio quadro teorico semplicemente perché le condizioni materiali, culturali e politiche del paese erano diverse.<br />Come ci ricorda Ito Takatoshi, le condizioni per il decollo economico del Giappone furono realizzate autonomamente e secondo il contesto storico-sociale nel periodo Edo (1603-1867), ossia prima dell’apertura all’Occidente (8). I fattori indicati da Ito sono quattro: 1) Alto livello di istruzione 2) Accumulazione di capitale 3) Miglioramento delle tecniche agricole 4) Sviluppo delle infrastrutture.<br />L’elevato livello di istruzione raggiunto in Giappone, ancora oggi una discriminante straordinaria rispetto ad altri paesi, era determinato da un insieme di elementi culturali e sociali (9). All’insegnamento in famiglia si aggiunse l’educazione nei terakoya (scuole private) estremamente diffuso nel periodo dei Tokugawa sia nelle città sia nei villaggi. Il sistema dei terakoya era rivolto a ragazzi e ragazze fra i 6 e i 14 anni. Gli insegnanti erano in maggioranza ronin (samurai senza padrone), medici, sacerdoti shintoisti e soprattutto chonin (mercanti). Il livello di scolarizzazione del Giappone dell’epoca Edo era piuttosto elevato rispetto ad altri paesi: il 40% dei ragazzi e il 10% delle ragazze. Si contavano più di 10.000 terakoya nell’intero paese. Si consideri che il sistema dei terakoya era rivolto alla classe media, alla popolazione comune. La classe aristocratica dei samurai poteva vantare livelli di istruzione ancora più elevati. Tenendo presente che i samurai senza padrone (ronin) potevano divenire insegnanti nei terakoya, si intuisce come questo sapere non fosse elitario e chiuso.<br />Importantissima fu l’accumulazione di capitale generata da nuovi assetti politici e dall’organizzazione sociale. La divisione in nuove classi sociali, la stabilità politica e la pace duratura furono le premesse all’ascesa della chonin bunka (cultura dei commercianti). Nonostante i chonin non potessero svolgere un ruolo politico attivo e diretto, essendo privi di qualsiasi potere militare (detenuto dai samurai), furono gli artefici dello sviluppo urbano, dell’esercizio commerciale e della circolazione monetaria. In particolare, fu il meccanismo della komezukai no keizai (economia dell’uso di scambio del riso) ad avviare l’aumento di volume d’affari dei chonin (commercianti) e la circolazione monetaria. Infatti i daimyo riscuotevano le imposte e i samurai ricevevano gli stipendi in natura, ossia in riso, ma erano costretti a convertirlo in moneta dai commercianti. La frequentazione dei quartieri urbani da parte dei samurai innescava un’economia dei consumi e l’attivazione di una forte circolazione monetaria. I chonin raggiunsero ricchezze cospicue, a volte superiori a quelle dei daimyo. Una figura di spicco fra i chonin fu Kinokuniya Bunzaemon, facoltoso commerciante.<br />Queste sono in breve le caratteristiche della storia economica giapponese alle sue origini (10).<br />Per aumentare il grado di comprensione dei fenomeni economici giapponesi, suggeriamo di seguire la metodologia weberiana assumendo l’avalutatività (Wertfreiheit) come criterio indispensabile per la scienza. Infatti qualsiasi pregiudizio inficia inevitabilmente lo svolgimento teorico della sociologia.<br />In secondo luogo, Weber elaborò un concetto di razionalità che risulta estremamente utile per lo studioso (11). Egli distinse rispetto all’agire sociale quattro tipi ideali: agire razionale rispetto allo scopo (zweckrational), agire razionale rispetto al valore (wertrational), atteggiamento affettivo (affektuell) e tradizionale (traditional). L’agire razionale rispetto allo scopo è orientato al conseguimento dei mezzi ritenuti adeguati per realizzare un certo scopo. L’agire razionale rispetto al valore tiene presenti certe credenze in base a un valore attribuito socialmente. L’agire affettivo è determinato da emozioni, sensazioni, affetti. L’agire tradizionale è determinato dalle abitudini acquisite e dai costumi di una civiltà.<br />Il grado di razionalità e intelligibilità dei fenomeni diminuisce passando dall’agire razionale all’atteggiamento tradizionale irrazionale. L’intenzione di Weber è comunque di riportare ciò che viene considerato irrazionale sotto l’indagine scientifica. Infatti, il fenomeno sociale non è mai puramente formale, ma in diversi gradi può essere costituito da una combinazione dei quattro tipi ideali dell’agire sociale. La conseguenza più importante è la conclusione, secondo Weber, che la razionalità non può riferirsi a un unico modello.<br />Questa considerazione sociologica rispecchia la posizione della filosofia giapponese del Novecento. Nishida Kitaro coniò il termine toyoteki ronri (logica orientale) per distinguere la razionalità formale giapponese da quella occidentale (12). Tanabe Hajime si dedicò alla filosofia della scienza e scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (13). Anch’egli riconobbe la necessità di elaborare una logica che tenesse presenti le caratteristiche giapponesi. Watsuji Tetsuro pensò addirittura di poter rintracciare le caratteristiche del pensiero giapponese nell’influenza dell’ambiente e del clima (14). Mutai Risaku criticò l’idea che la logica occidentale rappresenti la forma corretta e universale del pensiero (15).<br />Le conseguenze dal punto di vista sociologico ed economico sono enormi. Per avere una comprensione dei comportamenti economici giapponesi è necessario avere una conoscenza delle variabili che determinano l’agire sociale. E questo può avvenire soltanto tenendo presenti i valori nella società giapponese. L’errore metodologico consiste nel riportare l’agire razionale giapponese a un atteggiamento irrazionale tradizionale o affettivo, indicando come sopravvivenze di un sistema arcaico ciò che è semplicemente diverso dalla razionalità occidentale.<br /><br />Religione e società<br /><br />Weber aveva studiato l'influenza delle credenze religiose sull'economia fornendo una teoria sul capitalismo occidentale molto apprezzata negli ambiti storici e sociologici. Ne L'etica protestante e lo spirito del capitalismo (16), egli osserva un fatto statistico, ossia la prevalenza delle imprese e proprietà protestanti in Europa. Analizzando il fenomeno nella dimensione diacronica, si trova conferma dello sviluppo del capitalismo in centri protestanti a partire dal XVI secolo. Weber cerca quindi una spiegazione del fenomeno che trova nelle caratteristiche del protestantesimo. Secondo Weber nasce dall'etica protestante la concezione del capitalismo moderno basata sulla disciplina del lavoro, la dedizione al guadagno tramite un'attività economica legittima, e la mancanza dello sperpero del guadagno che invece viene reinvestito (17). Un'analisi weberiana della società e economia giapponese è stata tentata da Morishima Michio (18). Secondo Morishima, in Europa l'etica protestante incoraggiò il capitalismo, mentre in Giappone fu il confucianesimo a sostenerlo. L'enfasi confuciana sulla fedeltà ai genitori, agli anziani, e allo stato avrebbe promosso la cooperazione tra gli imprenditori e il governo. Tuttavia la teoria di Morishima è per molti versi insoddisfacente, nonostante abbia avuto ampia diffusione e consensi (19). Le motivazioni sono di ordine storico e filosofico. Il confucianesimo cinese è una dottrina funzionale alla stabilità delle classi aristocratiche e alla conservazione del mondo contadino. Ciò è in contraddizione con il dinamismo moderno e il capitalismo. In effetti, si deve riconoscere che il neoconfucianesimo giapponese ha tratti completamente diversi dal confucianesimo cinese (20). Il neoconfucianesimo sviluppato in epoca Edo (1603-1867) esaltava il razionalismo e lo studio delle scienze (21).<br />Ma nemmeno le particolarità del neoconfucianesimo giapponese sono sufficienti per spiegare i fenomeni economici del XX secolo. Gli influssi dello shintoismo e del buddhismo sono stati eccessivamente trascurati. Lo shintoismo fornisce una considerazione delle cose (mono) differente dalle religioni monoteiste. L'insistenza sul valore e sulla natura divina delle cose attribuisce al prodotto un significato particolare. Non si tratta di una rozza forma di animismo, ma di una concezione che elimina il dualismo cartesiano (spirito e materia) tipico del pensiero occidentale. La mancanza di una distinzione fra mente e materia permette di concepire le idee con una progettualità concreta e il prodotto con le implicazioni della sensibilità umana. Una concezione che è rispecchiata nel marketing come evidenziato da Johansson e Nonaka (22).<br />L'analisi dell'organizzazione industriale rivela l'applicazione di un pensiero derivato dal buddhismo zen. Innanzitutto il concetto di kaizen, la qualità totale, che riprende l'idea di miglioramento tipica dello zen. Ma soprattutto l'intero processo di fabbricazione che responsabilizza l'operaio. Una concezione opposta e contraria allo Scientific Management americano inventato da Frederick Taylor (23) e applicato al fordismo. L'operaio nel Toyota Production System ha la facoltà di bloccare l'intera linea di produzione per apportare modifiche e miglioramenti. Questo arresto in linea era inconcepibile nelle fabbriche occidentali, tanto che fu ridicolizzato dal comico Charlie Chaplin nel suo celebre film Tempi moderni (1936). Secondo i manager giapponesi, una linea produttiva che non si arresta mai è una linea perfetta oppure una linea con una quantità enorme di problemi. La seconda ipotesi è la più probabile. Infatti la mancanza dell'arresto della linea impedisce di far emergere e individuare le disfunzioni. L'addetto alla linea non deve essere un semplice esecutore di ordini, ma conoscere e controllare gli eventi della produzione. Nella fabbrica giapponese c'è un surplus di coscienza.<br />Anche la considerazione del "nulla" (mu) come elemento attivo, elaborata dal pensiero zen, è ripresa nella definizione dei "sei zeri": zero stock (nessuna scorta in magazzino), zero difetti, zero conflitto, zero tempi morti di produzione, zero tempo d'attesa per il cliente, zero cartacce (eliminazione della burocrazia superflua)(24). Concetti espressi anche con la definizione delle "tre emme": muri (eccesso), muda (spreco) e mura (irregolarità)(25). Il pensiero zen è in azione e applicato in questa considerazione del nulla come fattore produttivo. Una considerazione che ha permesso ai giapponesi di perfezionare un sistema di fabbricazione just-in-time estremamente efficiente che è stato poi imitato anche dagli occidentali.<br />Ovviamente le forme del pensiero e della cultura non generano la realtà materiale, ma tuttavia interagiscono con essa in maniera forte e determinante. Rifiutare il riconoscimento dell'interazione di fattori psicologici e mentali, del sistema di credenze, del mondo simbolico con l'apparato economico, equivale a una lobotomia del pensiero scientifico che trae la sua forza proprio nella capacità di fornire una elaborazione concettuale (Begriffbildung) esplicativa della complessità empirica.<br />Economia e cultura<br />Il modello economico giapponese che è stato sostenuto maggiormente è il tipo dell'assimilazione culturale sincretica (yugo) del Giappone che ne avrebbe conservato la cultura tradizionale adottando le tecniche occidentali (wakon yosai). Ma questo modello rischia di rivelarsi una banalità. Innanzitutto non si definisce cosa si intenda per tradizione giapponese. Considerando che la tradizione giapponese è già essa stessa una forma sincretica fra la cultura autoctona e la cultura cinese, questa distinzione perde di efficacia. Inoltre non esiste cultura che non sia una forma di assimilazione e trasformazione. L'immobilità è la morte di una cultura, e non costituisce uno stato di conservazione. Quindi è superfluo considerare l'assimilazione culturale in Giappone come un evento particolare e singolare. E altrettanto inutile è meravigliarsi delle forme sincretiche nipponiche (yugo) che sono la semplice manifestazione di una civiltà vitale.<br />Piuttosto risulta estremamente interessante considerare la dinamica sociale che è terribilmente sottostimata. L'idea di una società immobile e gerarchica viene attribuita al Giappone in maniera superficiale e stereotipata, mentre gli studi storici evidenziano una mobilità sociale che ha innescato importanti fenomeni. Questo errore è consueto negli autori che posseggono una scarsa dimestichezza con le categorie sociologiche. Ad esempio, è frequente l'uso maldestro del concetto di classe sociale senza alcuna considerazione della stratificazione sociale. Ogni individuo può appartenere a una sola classe, ma contemporaneamente a parecchi strati sociali poiché esistono diversi criteri di stratificazione (economico, politico, professionale, scolastico, religioso, etnico, etc.). Come conseguenza, l'ignoranza della stratificazione sociale impedisce di vedere e comprendere la mobilità sociale.<br />Eppure non mancano gli studiosi che hanno mostrato quanti cambiamenti abbia attraversato il Giappone. Il posto fisso nell'azienda, per esempio, è un fenomeno recente che risale al dopoguerra. Perciò non costituisce una regola e non va inteso come una caratteristica del sistema economico giapponese su lunga scala. Noguchi Yukio ha individuato notevoli differenze del sistema economico prima del 1940, e suggerisce di considerare con maggiore attenzione il periodo prebellico (26). Questi cambiamenti sarebbero indicati anche da Okazaki Tetsuji e Okamura Masahiro ne L'origine del sistema economico giapponese (27).<br />Ma ritorniamo alla questione dello sviluppo tecnologico. Per quanto riguarda le tecniche occidentali, sono molti gli studiosi che hanno segnalato come l'adozione di una tecnica non implichi necessariamente una particolare struttura sociale(28). La credenza che l'innovazione tecnologica comporti uno sviluppo lineare è stata da tempo criticata e respinta (29). Il mito della modernizzazione crolla ogni giorno davanti alla realtà storica contemporanea, la cui complessità smentisce ogni tipo di dogma.<br />Dopo aver riconosciuto i limiti del modello sincretico, possiamo comunque rivalutare il suo apporto teorico all'indagine sociologica. L'economia giapponese è costituita da un insieme di variabili che non possono essere riportate a un modello tradizionale e neppure al modello occidentale della modernizzazione. Inoltre non si tratta di una semplice combinazione additiva fra antica tradizione e moderna tecnologia. I rapporti fra questi diversi elementi hanno generato fenomeni completamente nuovi. Lo sviluppo economico del Giappone non può essere considerato un'addizione fra tradizione e tecnologia. Infatti gli influssi vicendevoli fra elementi materiali e fattori culturali hanno innescato un reciproco cambiamento. La tecnologia giapponese si sviluppa ormai in maniera autonoma e secondo proprie direttive. Prodotti come il Walkman, la Playstation, il Gameboy che tanto influenzano la vita quotidiana dei giovani, sono nati dalla creatività giapponese (30).<br />Come ci ricordano gli storici della scienza, la tecnica è semplicemente ciò che serve per soddisfare un bisogno. Una concezione della tecnica scevra di ogni tentazione metafisica, ci permette di comprendere come possa essere applicata in ambienti diversi. Il sincretismo giapponese fra cultura e tecnologia è il semplice riconoscimento della concretezza della scienza e della tecnica. Un pragmatismo, come si è detto in precedenza, favorito dalle scuole neoconfuciane giapponesi. La cultura, a sua volta, non è minacciata dalla modernità. Ogni società che è capace di adattarsi e assimilare elementi nuovi è estremamente vitale. Interpretare le trasformazioni di una cultura come una sua negazione significa non possedere una conoscenza perspicua della sociologia e dell'antropologia culturale.<br /><br />Note<br /><br />1. Sulla questione è utile consultare: Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, South Atlantic Quarterly, vol. 87, n. 3, Summer 1988, pp. 401-418. Anche Harootunian ha sviluppato la polemica sul rapporto fra storiografia e ideologia. Cfr. Harootunian, Harry, Visible Discourses/Invisible Ideologies, South Atlantic Quarterly, vol. 87, n. 3, Summer 1988, pp.446-474. L'analisi più profonda e pertinente resta comunque quella operata da Yamamura Kozo, professore di economia all'Università di Washington, che ha evidenziato i limiti e gli errori della storiografia. Cfr. Yamamura, Kozo, "L'industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione", in Storia Economica Cambridge, vol. VII, cap. 5. Einaudi, Torino, 1980, pp. 267-329.<br />2. Weber, Max, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Mohr, Tübingen, 1922 (trad. it. Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958).<br />3. Bourdieu, Pierre, Réponses. Pour une anthropologie réflexiv, Editions du Seuil, Paris, 1992 (trad. it. Bourdieu, Pierre, Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992).<br />4. Nishida Kitaro, Nishida Kitarou zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1948, vol. 6.<br />5. Ricordiamo un caso emblematico, quello di Karel van Wolferen, che fornisce una visione critica e negativa del sistema economico giapponese. Cfr. Van Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano 1990.<br />6. Nakane Chie, Japanese Society, London, Weidenfeld & Nicolson, London, 1973 (trad. it. Nakane Chie, La società giapponese, Raffaello Cortina, Milano, 1992).<br />7. Miki Kiyoshi addirittura considera il pensiero un prodotto storico ribaltando la questione. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.<br />8. Ito, Takatoshi. 1992. The Japanese Economy, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, 1992.<br />9. Fondamentale il lavoro di Ronald Dore che mise in evidenza la discriminante dell'istruzione come fattore di sviluppo. Cfr. Dore, Ronald. Education in Tokugawa Japan, University of California Press, Berkeley & Los Angeles, 1965.<br />10. Anche Halliday riconosce l'importanza dello sviluppo economico del periodo Edo per la successiva ascesa della società industriale dell'epoca Meiji. Cfr. Halliday, Jon, A Political History of Japanese Capitalism, Pantheon Books, New York, 1975. Sullo sviluppo del periodo Edo ha scritto in maniera completa ed esaustiva Claudio Zanier. Cfr. Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.<br />11. Il lavoro di Weber è fondamentale per la sociologia. Indubbiamente si tratta dell'autore più fecondo, e i suoi trattati teorici sul metodo sociologico sono ancora di una straordinaria attualità. Così come le teorie sulla società moderna, l'economia e lo sviluppo. Si consultino i testi dedicati da Franco Ferrarotti al sociologo tedesco. Ferrarotti, Franco, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Bari, 1985.<br />12. Cfr. Giancarlo Vianello. "La scuola di Kyoto attraverso il Novecento", in Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1996, p. 37.<br />13. Tanabe Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.<br />14. Watsuji Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatsu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.<br />15. Mutai Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.<br />16. Weber, Max, "Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus", in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie. Mohr, Tübingen 1922 (trad. it. Weber, Max, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1945).<br />17. Una bella esposizione del pensiero weberiano è fornita da Giddens che approfondisce e paragona le analisi di Weber a quelle di altri studiosi. Giddens, Anthony, Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1971.<br />18. Morishima, Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge University Press, Cambridge, 1982.<br />19. Ad esempio nel lavoro di Ronald Dore e altri studiosi occidentali. Dore, Ronald, Taking Japan Seriously. A Confucian Perspective on Leading Economic Issue, Athlon Press, London 1987 (trad. it. Dore, Ronald, Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi. Bologna, il Mulino, 1990).<br />20. Cfr. Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996, pp. 144-148.<br />21. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001, p. 8.<br />22. Johansson, Johny e Nonaka, Ikujiro, Senza tregua. L'arte giapponese del marketing. Baldini & Castoldi, Milano, 1997.<br />23. Taylor, Frederick, Scientific Management, Harper & Brothers, New York, 1947. Si consulti Smiraglia per un quadro completo. Smiraglia, Stanislao, Psicologia sociale della società industriale, Pàtron, Bologna, 1993.<br />24. Cfr. Ohno Taiichi, Lo spirito Toyota. Einaudi, Torino, 1993, pp. XVI-XVII.<br />25. Cfr. Schonberger, Richard, Tecniche produttive giapponese, Franco Angeli, Milano, 1987, pp. 72-73.<br />26. Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.<br />27. Ozaki, Tetsuji e Okamura, Masahiro, Gendai Nihon keizai shisutemu no genryu, Nihonkeizai Shinbunsha, Tokyo, 1993.<br />28. Il problema è trattato da Franco Crespi. Cfr. Crespi, Franco, Le vie della sociologia, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 337-388. Un approccio critico al problema è esposto da Giddens con il solito acume. Giddens, Anthony, Sociology. A Brief but Critical Introduction, Macmillian, London, 1982.<br />29. La critica più autorevole è quella di Immanuel Wallerstein, importante sociologo. Wallerstein, Immanuel, The Modern World System, Academic Press, New York, 1974.<br />30. Gli studi sulla cultura giovanile giapponese cadono nell'errore frequente di isolare la cultura di massa senza considerare la partecipazione individuale alla società nella sua completezza. Eppure questi elementi hanno senso soltanto quando considerati insieme. Lo studio della società di massa non può avvenire separatamente dallo studio della società in tutti i suoi aspetti istituzionali, economici e relazionali. Infatti la società di massa è soltanto un aspetto della società moderna. Questo genere di errore è evidente in Sharon Kinsella e Alessandro Gomarasca che definiscono mistificatori gli studi sulla società giapponese e rigettano ogni tipo di indagine scientifica che non rientri nel loro quadro di riferimento. Cfr. Gomarasca, Alessandro, La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-9437042519872169442010-11-18T01:25:00.000-08:002010-11-18T01:27:38.237-08:00Il concetto giapponese di economiaSaggio sull'economia giapponese pubblicato dall'Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (AISTUGIA). Cfr. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia. Le implicazioni sociologiche e metodologiche, in Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002, pp.393-401.<br /><br />Il concetto giapponese di economia. Le implicazioni sociologiche e metodologiche<br />di Cristiano Martorella<br /><br />L’ascesa dell’economia giapponese nel XX secolo ha attirato l’attenzione di molti studiosi. Notevolissima è dunque la produzione di testi che ha arricchito una vasta saggistica. Ma la ricerca scientifica ha fornito risultati ambigui e contraddittori per quanto riguarda l’economia giapponese. Non si è giunti nemmeno ad essere concordi sull’esistenza di un modello economico specificamente giapponese. Si è arrivati invece al punto di mettere in dubbio la stessa storiografia che risentendo gravemente delle diverse impostazioni riceve l’accusa di subire influenze ideologiche molto forti.(1)<br />Ci sembra opportuno riportare questi problemi nell’ambito della sociologia e cercare di impostare l’analisi alla luce di una questione metodologica. Se la sociologia si è rivelata incapace nel descrivere compiutamente l’economia giapponese, tale debolezza è l’indizio di una carenza degli strumenti scientifici e del metodo di ricerca.<br />L’autore che ha affrontato queste problematiche in maniera compiuta fu Max Weber.(2) Weber ha risolto in modo brillante la difficoltà dell’oggettivazione nelle scienze storico-sociali. Poiché nello studio dell’economia giapponese si riscontra la medesima difficoltà, è indispensabile ripercorrere l’insegnamento weberiano. La scientificità di molte tesi attuali è minata dalla mancanza della distinzione weberiana fra il giudizio di valore (giudizio personale) e l’affermazione di fatto (constatazione dei fatti). L’oggettivazione non è un’utopia, ma un processo cognitivo. Chi rifiuta l’attività scientifica come prodotto teorico di un’elaborazione intellettuale che interagisce con la realtà, si pone fuori dalla scienza. Questo erroneo atteggiamento molto comune fra gli studiosi comporta l’assunzione delle proprie opinioni elevate a verità assolute indiscutibili. Il passo successivo è la personalizzazione del settore di studio e la tendenza ad avallare le proprie teorie in base a una supposta autorità.<br />Eppure non si fa scienza (epistéme) attraverso l’opinione (doxa). La scienza implica una considerazione dei fatti, una visione complessiva e non parziale, la verifica delle teorie. Tutto ciò può avvenire, secondo Weber, soltanto impostando una corretta metodologia di ricerca. Le scienze storico-sociali implicano una relazione ai valori. I valori di una società devono essere studiati nell’ambito delle relazioni sociali e materiali, così da rendere intelligibile il fenomeno storico che si vuole indagare. Se lo studioso fornisce una preventiva valutazione dei fatti storico-sociali, esprimendo un giudizio personale, impedisce alla ricerca di avanzare nella spiegazione dei nessi causali. Come dice Weber, questo genere di dogma è soltanto una "questione di fede".<br />Weber propone quindi una migliore definizione degli strumenti d’indagine scientifica. Egli definisce il tipo ideale (Idealtypus) come un costrutto intellettuale capace di elaborare la complessità empirica fornendo una lettura perspicua dei fenomeni. Ma la validità di un costrutto idealtipico non può essere accertata a priori. Il tipo ideale è uno strumento di lavoro e la sua validità viene accertata in base all’efficacia nella comprensione dei concreti fenomeni culturali.<br />Poiché Weber riconosce l’influenza del pensiero di un’epoca sullo studioso, egli non sfugge affatto alla problematicità dell’oggettivazione. Non si lascia però ingannare da facili e banali contrapposizioni che liquidano il concetto stesso di oggettività. Secondo Pierre Bourdieu la struttura sociale non è solo un condizionamento che determina l’azione degli individui, ma è anche il prodotto della loro azione che trasforma la struttura stessa.(3)<br />L’oggettività è la relazione fra soggetto e oggetto. Essa va trattata come tale escludendo quella falsa e fuorviante concezione dell’oggettività come ipostatizzazione e neutralizzazione del rapporto soggetto/oggetto. Questa falsa oggettività nasconde il soggetto conoscente. Estremamente interessante è notare come tale concezione del soggetto e dell’oggetto come relazione processuale coincida con la stessa elaborata dal filosofo Nishida Kitaro.(4) Il soggetto può conoscere se stesso soltanto tramite l’oggetto, e apprendere dell’oggetto tramite il sé. Non si tratta di una coincidenza. Nishida e Weber erano debitori di una concezione elaborata in modo ampio e sofisticato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel.<br />In un ambito epistemologico, la scienza sociale deve riconoscere che la visione e l’interpretazione sono una componente dell’intera realtà del mondo sociale. Sembra superfluo mettere in evidenza l’enorme differenza fra chi sostiene verità indiscutibili e chi propone modelli teorici che interagiscono con la realtà. Eppure gli studi sull’economia giapponese hanno risentito negativamente del primo atteggiamento.(5)<br />Come si è detto in precedenza, questa situazione ha comportato un grado di conflittualità elevata fra gli studiosi di nipponistica. Si tratta comunque di un fenomeno frequente e costante. Già negli anni ’70, la sociologa Nakane Chie rimproverava agli occidentali di usare pedissequamente i modelli teorici elaborati per le società occidentali senza tenere in considerazione la realtà giapponese.(6) Attualmente la situazione non è migliorata. Si assiste, anzi, allo scontro fra teorici della specificità giapponese (nihonjinron) e teorici dell’indifferenza (chi sostiene che la società giapponese vada spiegata con le stesse categorie usate per l’Occidente). E quest’ultimi, paradossalmente, non avrebbero niente da dire se non esistessero i primi. Si tratta di un conflitto chiuso e interno a se stesso. I risultati sono abbastanza evidenti: l’incapacità di fornire teorie e spiegazioni sulla società giapponese che non siano banali stereotipi. Dalla fine dell’Ottocento ad oggi, gli occidentali sono stati abilissimi a sostenere un conflitto culturale fra la tradizione giapponese e la società moderna. Tanto abili da sostenere la medesima teoria per più di un secolo attraversando tutti i mutamenti sociali, economici e politici del Giappone con uguale indifferenza. Affermare che questa sia una grave miopia è il minimo. Il Giappone non è un paese misterioso e incomprensibile, è soltanto il caso evidente di una cattiva impostazione metodologica degli studiosi.<br />Per evitare di trascinarci in questo pantano di inconcludenti polemiche, bisogna impostare necessariamente la questione metodologica della società giapponese nell’ambito della sociologia. Le scienze sociali riconoscono lo sviluppo storico della società diversificato secondo differenti variabili. La specificità di ogni società è dunque la premessa e non il risultato dell’indagine scientifica. E tale condizione è dettata dallo svolgimento storico che non è regolato da nessuna legge deterministica.(7)<br />Quindi il concetto di nihonjinron (specificità culturale giapponese) è superfluo, ma non è falso. Si tratta di una banalità (ogni società ha una sua specificità) che si dimostra particolarmente debole quando viene assunta come principio esplicativo astratto, non contestualizzato e metastorico. La storia economica del Giappone rispecchia un proprio quadro teorico semplicemente perché le condizioni materiali, culturali e politiche del paese erano diverse.<br />Per aumentare il grado di comprensione dei fenomeni economici giapponesi, bisogna seguire la metodologia weberiana assumendo l’avalutività (Wertfreiheit) come criterio indispensabile per la scienza. Infatti qualsiasi pregiudizio inficia inevitabilmente lo svolgimento teorico della sociologia.<br />In secondo luogo, Weber elaborò un concetto di razionalità che risulta estremamente utile per lo studioso.(8) Egli distinse rispetto all’agire sociale quattro tipi ideali: agire razionale rispetto allo scopo (zweckrational), agire razionale rispetto al valore (wertrational), atteggiamento affettivo (affektuell) e tradizionale (traditional). L’agire razionale rispetto allo scopo è orientato al conseguimento dei mezzi ritenuti adeguati per realizzare un certo scopo. L’agire razionale rispetto al valore tiene presenti certe credenze in base a un valore attribuito socialmente. L’agire affettivo è determinato da emozioni, sensazioni, affetti. L’agire tradizionale è determinato dalle abitudini acquisite e dai costumi di una civiltà.<br />Il grado di razionalità e intelligibilità dei fenomeni diminuisce passando dall’agire razionale all’atteggiamento tradizionale irrazionale. L’intenzione di Weber è comunque di riportare ciò che viene considerato irrazionale sotto l’indagine scientifica. Infatti, il fenomeno sociale non è mai puramente formale, ma in diversi gradi può essere costituito da una combinazione dei quattro tipi ideali dell’agire sociale. La conseguenza più importante è la conclusione, secondo Weber, che la razionalità non può riferirsi a un unico modello.<br />Questa considerazione sociologica rispecchia la posizione della filosofia giapponese del Novecento. Nishida Kitaro coniò il termine toyoteki ronri (logica orientale) per distinguere la razionalità formale giapponese da quella occidentale.(9) Tanabe Hajime si dedicò alla filosofia della scienza e scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza).(10) Anch’egli riconobbe la necessità di elaborare una logica che tenesse presenti le caratteristiche giapponesi. Watsuji Tetsuro pensò addirittura di poter rintracciare le caratteristiche del pensiero giapponese nell’influenza dell’ambiente e del clima.(11) Mutai Risaku criticò l’idea che la logica occidentale rappresenti la forma corretta e universale del pensiero.(12)<br />Le conseguenze dal punto di vista sociologico ed economico sono enormi. Per avere una comprensione dei comportamenti economici giapponesi è necessario avere una conoscenza delle variabili che determinano l’agire sociale. E questo può avvenire soltanto tenendo presenti i valori nella società giapponese. L’errore metodologico consiste nel riportare l’agire razionale giapponese a un atteggiamento irrazionale tradizionale o affettivo, indicando come sopravvivenze di un sistema arcaico ciò che è semplicemente diverso dalla razionalità occidentale.<br />Weber aveva perciò studiato l’influenza delle credenze religiose sull’economia fornendo una teoria sul capitalismo occidentale molto apprezzata negli ambiti storici e sociologici. Ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,(13) egli osserva un fatto statistico, ossia la prevalenza delle imprese e proprietà protestanti in Europa. Analizzando il fenomeno nella dimensione diacronica, si trova conferma dello sviluppo del capitalismo in centri protestanti a partire dal XVI secolo. Weber cerca quindi una spiegazione del fenomeno che trova nelle caratteristiche del protestantesimo. Secondo Weber nasce dall’etica protestante la concezione del capitalismo moderno basata sulla disciplina del lavoro, la dedizione al guadagno tramite un’attività economica legittima, e la mancanza dello sperpero del guadagno che invece viene reinvestito.(14) Un’analisi weberiana della società ed economia giapponese è stata tentata da Morishima Michio.(15) Secondo Morishima, in Europa l’etica protestante incoraggiò il capitalismo, mentre in Giappone fu il confucianesimo a sostenerlo. L’enfasi confuciana sulla fedeltà ai genitori, agli anziani, e allo stato avrebbe promosso la cooperazione tra gli imprenditori e il governo. Tuttavia la teoria di Morishima è per molti versi insoddisfacente, nonostante abbia avuto ampia diffusione e consensi.(16) Le motivazioni sono di ordine storico e filosofico. Il confucianesimo cinese è una dottrina funzionale alla stabilità delle classi aristocratiche e alla conservazione del mondo contadino. Ciò è in contraddizione con il dinamismo moderno e il capitalismo. In effetti, si deve riconoscere che il neoconfucianesimo giapponese ha tratti completamente diversi dal confucianesimo cinese.(17) Il neoconfucianesimo sviluppato in epoca Edo (1600-1867) esaltava il razionalismo e lo studio delle scienze.(18)<br />Ma nemmeno le particolarità del neoconfucianesimo giapponese sono sufficienti per spiegare i fenomeni economici del XX secolo. Gli influssi dello shintoismo e del buddhismo sono stati eccessivamente trascurati. Lo shintoismo fornisce una considerazione delle cose (mono) differente dalle religioni monoteiste. L’insistenza sul valore e sulla natura divina delle cose attribuisce al prodotto un significato particolare. Non si tratta di una rozza forma di animismo, ma di una concezione che elimina il dualismo cartesiano (spirito e materia) tipico del pensiero occidentale. La mancanza di una distinzione fra mente e materia permette di concepire le idee con una progettualità concreta e il prodotto con le implicazioni della sensibilità umana. Una concezione che è rispecchiata nel marketing come evidenziato da Johansson e Nonaka.(19)<br />L’analisi dell’organizzazione industriale rivela l’applicazione di un pensiero derivato dal buddhismo zen. Innanzitutto il concetto di kaizen, la qualità totale, che riprende l’idea di miglioramento tipica dello zen. Ma soprattutto l’intero processo di fabbricazione che responsabilizza l’operaio. Una concezione opposta e contraria allo Scientific Management americano inventato da Frederick Taylor (20) e applicato al fordismo. L’operaio nel Toyota Production System ha la facoltà di bloccare l’intera linea di produzione per apportare modifiche e miglioramenti. Questo arresto in linea era inconcepibile nelle fabbriche occidentali, tanto che fu ridicolizzato dal comico Charlie Chaplin nel suo celebre film Tempi moderni (1936). Secondo i manager giapponesi, una linea produttiva che non si arresta mai è una linea perfetta oppure una linea con una quantità enorme di problemi. La seconda ipotesi è la più probabile. Infatti la mancanza dell’arresto della linea impedisce di far emergere e individuare le disfunzioni. L’addetto alla linea non deve essere un semplice esecutore di ordini, ma conoscere e controllare gli eventi della produzione. Nella fabbrica giapponese c’è un surplus di coscienza.<br />Anche la considerazione del "nulla" (mu) come elemento attivo, elaborata dal pensiero zen, è ripresa nella definizione dei "sei zeri": zero stock (nessuna scorta in magazzino), zero difetti, zero conflitto, zero tempi morti di produzione, zero tempo d’attesa per il cliente, zero cartacce (eliminazione della burocrazia superflua).(21) Concetti espressi anche con la definizione delle "tre emme": muri (eccesso), muda (spreco) e mura (irregolarità).(22) Il pensiero zen è in azione e applicato in questa considerazione del nulla come fattore produttivo. Una considerazione che ha permesso ai giapponesi di perfezionare un sistema di fabbricazione just-in-time estremamente efficiente che è stato poi imitato anche dagli occidentali.<br />Ovviamente le forme del pensiero e della cultura non generano la realtà materiale, ma tuttavia interagiscono con essa in maniera forte e determinante. Rifiutare il riconoscimento dell’interazione di fattori psicologici e mentali, del sistema di credenze, del mondo simbolico con l’apparato economico, equivale a una lobotomia del pensiero scientifico che trae la sua forza proprio nella capacità di fornire una elaborazione concettuale (Begriffbildung) esplicativa della complessità empirica.<br />Il modello economico giapponese che è stato sostenuto maggiormente è il tipo dell’assimilazione culturale sincretrica del Giappone che ne avrebbe conservato la cultura tradizionale adottando le tecniche occidentali (wakon yosai). Ma questo modello rischia di rivelarsi una banalità. Innanzitutto non si definisce cosa si intenda per tradizione giapponese. Considerando che la tradizione giapponese è già essa stessa una forma sincretica fra la cultura autoctona e la cultura cinese, questa distinzione perde di efficacia.<br />Inoltre non esiste cultura che non sia una forma di assimilazione e trasformazione. L’immobilità è la morte di una cultura, e non costituisce uno stato di conservazione. L’Impero Romano assimilò la filosofia, la religione e l’arte dei greci, vari culti religiosi dal Medio Oriente e numerose tecniche di guerra dai popoli che affrontò. La Cina fu governata dai mongoli che introdussero parecchie novità nella politica dello stato. L’Italia è stata terra di conquista di svariati popoli: francesi, spagnoli, austriaci, normanni, bizantini e arabi. Ma nonostante ciò continuiamo a parlare di cultura italiana senza troppo preoccuparci dei fenomeni di acculturazione.<br />Quindi è superfluo considerare l’assimilazione culturale in Giappone come un evento particolare e singolare. E altrettanto inutile è meravigliarsi delle forme sincretiche nipponiche che sono la semplice manifestazione di una civiltà vitale.<br />Per quanto riguarda le tecniche occidentali, sono molti gli studiosi che hanno segnalato come l’adozione di una tecnica non implichi necessariamente una particolare struttura sociale.(23) La credenza che l’innovazione tecnologica comporti uno sviluppo lineare è stata da tempo criticata e respinta.(24) Il mito della modernizzazione crolla ogni giorno davanti alla realtà storica contemporanea, la cui complessità smentisce ogni tipo di dogma.<br />Dopo aver riconosciuto i limiti del modello sincretico, possiamo comunque rivalutare il suo apporto teorico all’indagine sociologica. L’economia giapponese è costituita da un insieme di variabili che non possono essere riportate a un modello tradizionale e neppure al modello occidentale della modernizzazione. Inoltre non si tratta di una semplice combinazione additiva fra antica tradizione e moderna tecnologia. I rapporti fra questi diversi elementi hanno generato fenomeni completamente nuovi. Lo sviluppo economico del Giappone non può essere considerato un’addizione fra tradizione e tecnologia. Infatti gli influssi vicendevoli fra elementi materiali e fattori culturali hanno innescato un reciproco cambiamento. La tecnologia giapponese si sviluppa ormai in maniera autonoma e secondo proprie direttive. Prodotti come il Walkman, la Playstation, il Gameboy che tanto influenzano la vita quotidiana dei giovani, sono nati dalla creatività giapponese.(25)<br />Come ci ricordano gli storici della scienza, la tecnica è semplicemente ciò che serve per soddisfare un bisogno. Una concezione della tecnica scevra di ogni tentazione metafisica, ci permette di comprendere come possa essere applicata in ambienti diversi. Il sincretismo giapponese fra cultura e tecnologia è il semplice riconoscimento della concretezza della scienza e della tecnica. Un pragmatismo, come si è detto in precedenza, favorito dalle scuole neoconfuciane giapponesi. La cultura, a sua volta, non è minacciata dalla modernità. Ogni società che è capace di adattarsi e assimilare elementi nuovi è estremamente vitale. Interpretare le trasformazioni di una cultura come una sua negazione significa non possedere una conoscenza perspicua della sociologia e dell’antropologia culturale.<br /><br />Note<br /><br />1. Sulla questione è utile consultare Najita Tetsuo, "On Culture and Technology in Postmodern Japan", The South Atlantic Quarterly, 87, 3, Summer 1988, pp.401-418.<br />2. Max Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Tübingen, Mohr, 1922 (trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958).<br />3. Pierre Bourdieu, Résponses. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Editions du Seuil, 1992 (trad. it. Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1992).<br />4. Nishida Kitaro, Nishida Kitaro zenshu (Opere complete di Nishida Kitaro), Tokyo, Iwanami Shoten, 1948, vol. 6.<br />5. Ricordiamo un caso emblematico, quello di Karel van Wolferen, che fornisce una visione critica e negativa del sistema economico giapponese. Karel van Wolferen, Nelle mani del Giappone, Milano, Sperling & Kupfer, 1990.<br />6. Nakane Chie, Japanese Society, London, Weidenfeld & Nicolson, 1973 (trad. it. La società giapponese, Milano, Raffaello Cortina, 1992).<br />7. Miki Kiyoshi addirittura considera il pensiero un prodotto storico ribaltando la questione. Miki Kiyoshi, Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero), Tokyo, Iwanami Shoten, 1946.<br />8. Il lavoro di Weber è fondamentale per la sociologia. Indubbiamente si tratta dell’autore più fecondo, e i suoi trattati teorici sul metodo sociologico sono ancora di una straordinaria attualità. Così come le teorie sulla società moderna, l’economia e lo sviluppo. Si consultino i testi dedicati da Franco Ferrarotti al sociologo tedesco. Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Bari, Laterza, 1985.<br />9. Cfr. Giancarlo Vianello, "La scuola di Kyoto attraverso il Novecento", in Grazia Marchianò (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1996, p. 37.<br />10. Tanabe Hajime, Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza), Tokyo, Iwanami Shoten, 1918.<br />11. Watsuji Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatsu (Il clima: analisi della natura umana), Tokyo, Iwanami Shoten, 1979.<br />12. Mutai Risaku, Shisaku to kansatsu (Riflessioni e osservazioni), Tokyo, Keiso Shobo, 1971.<br />13. Max Weber, "Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus", in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, Mohr, 1922 (trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1945).<br />14. Una bella esposizione del pensiero weberiano è fornita da Giddens che approfondisce e paragona le analisi di Weber a quelle di altri studiosi. Anthony Giddens, Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1971.<br />15. Morishima Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.<br />16. Ad esempio nel lavoro di Ronald Dore e altri studiosi occidentali. Ronald Dore, Taking Japan Seriously. A Confucian Perspective on Leading Economic Issue, London, Athlon Press, 1987.<br />17. Cfr. Takeshita Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Bologna, Clueb, 1996, pp.144-148.<br />18. Cfr. Andrea Tenneriello, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Milano, Unicopli, 2001, p.8.<br />19. Johny Johansson e Nonaka Ikujiro, Senza tregua. L’arte giapponese del marketing, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.<br />20. Frederick Taylor, Scientific Management, New York, Harper & Brothers, 1947. Si consulti Smiraglia per un quadro completo. Stanislao Smiraglia, Psicologia sociale della società industriale, Bologna, Patron, 1993.<br />21. Cfr. Ohno Taiichi, Lo spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993, pp.XVI-XVII.<br />22. Cfr. Richard Schonberger, Tecniche produttive giapponesi, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 72-73.<br />23. Il problema è trattato da Franco Crespi. Cfr. Franco Crespi, Le vie della sociologia, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 337-388. Un approccio critico al problema è esposto da Giddens con il solito acume. Anthony Giddens, Sociology. A Brief but Critical Introduction, London, Macmillian, 1982.<br />24. La critica più autorevole è quella di Immanuel Wallerstein, importante sociologo. Immanuel Wallerstein, The Modern World System, New York, Academic Press, 1974.<br />25. Gli studi sulla cultura giovanile giapponese cadono nell’errore frequente di isolare la cultura di massa senza considerare la partecipazione alla società nella sua completezza. Eppure questi elementi hanno senso soltanto quando considerati insieme.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-58553803704440672382010-11-18T01:24:00.000-08:002010-11-18T01:25:22.640-08:00Jikan, tempo e produzioneArticolo sul concetto di tempo e produzione nei sistemi industriali giapponesi pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Jikan. Tempo e produzione<br />Un'analisi del concetto di tempo fra economia e filosofia<br />di Cristiano Martorella<br /><br />18 marzo 2003. Jikan significa tempo in giapponese. Eppure la complessità che una simile parola comporta può essere appena sfiorata. Qui tratteremo l'argomento in relazione ai sistemi produttivi giapponesi. Ma getteremo uno sguardo anche ai temi filosofici in relazione ad un'analisi sociologica che è indispensabile per una corretta indagine. Partiamo appunto dalle scienze sociali per mettere a fuoco alcuni problemi. Recentemente si è abusato degli studi dell'arabo Edward Said per rigettare la storiografia sulla civiltà giapponese, in modo da evitare qualsiasi confronto con i nipponisti e invalidare la ricerca scientifica. Sotto un certo punto di vista, ciò risulta molto buffo. Edward Said, intellettuale palestinese nato a Gerusalemme nel 1935, cita la Cina e il Giappone per far notare la confusione che avviene in orientalistica utilizzando le stesse idee per civiltà estremamente differenti(1). L'errore denunciato da Said è il medesimo che viene compiuto da chi usa il suo stesso lavoro indirizzato esclusivamente al mondo islamico per spiegare il Giappone. Edward Said nel suo libro intitolato Orientalismo, cita il Giappone soltanto sei volte e quasi sempre per indicarne le diversità dal contesto analizzato. Il fatto che il lavoro di Said sia rivolto in modo particolare al mondo islamico è dichiarato esplicitamente dall'autore.<br /><br />"Per ragioni che esporrò tra breve ho ulteriormente limitato questo ambito di ricerca (comunque ancora estesissimo, a ben guardare) all'esperienza anglo-francese-americana nel mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l'Oriente. Sono così rimaste escluse vaste zone dell'Oriente geografico e culturale - India, Giappone, Cina e altre regioni dell'Estremo Oriente - , non perché queste ultime non siano importanti (è anzi ovvio che lo sono), ma perché l'esperienza europea del Vicino Oriente e del mondo islamico può essere discussa separatamente da quella dell'Estremo Oriente."(2)<br /><br />Gli imitatori incauti di Edward Said, ovvero coloro che usano le sue idee in modo improprio e fuorviante, hanno cercato di sostenere che ogni studio sulla società giapponese fosse una semplice rappresentazione astratta, e soprattutto hanno contestato l'unità culturale nipponica frantumandola in decine di subculture ancora più astratte della cultura originaria. Il risultato è affascinante, ma pieno di equivoci, fraintendimenti e falsità. Soprattutto risulta ambiguo il tentativo di fornire un quadro alternativo della cultura giapponese che è però in contraddizione con la cultura tout court. Perciò queste critiche non scalfiscono minimamente l'analisi delle influenze culturali sul modello produttivo giapponese, e non possono sostituirvi qualcosa di plausibile tranne pittoresche divagazioni. La parola jikan è composto da due kanji. Il primo è ji, letto anche toki: significa momento, tempo e indica anche le ore del giorno. Il secondo è kan, letto anche aida e ma: indica un intervallo sia di tempo sia di spazio. Ciò implica un senso leggermente diverso della parola jikan rispetto al tempo inteso nel linguaggio occidentale. Jikan è uno spazio-tempo. Vedremo che la differenza a livello filosofico è ancora più accentuata, e come ciò si riverberi al livello sociologico (dove la coscienza collettiva è costituita dall'attribuzione di significati condivisi). La concezione occidentale del tempo non è spontanea, ma è l'assimilazione culturale di un'elaborazione filosofica precisa e determinata. Fu Aristotele (384-322 a.C.) che rompendo con la tradizione presocratica dei greci formulò una concezione chiara e schematica del tempo. Secondo Aristotele il tempo è "numero del movimento secondo il prima e il poi" (Fisica, IV, 11, 219b). Con ciò si intende il tempo come una successione lineare. Nel XVII secolo René Descartes (1596-1650), conosciuto con il nome di Cartesio, espose un sistema filosofico d'impianto meccanicistico che segnava la formalizzazione matematica della natura. La concezione aristotelica del tempo veniva così inserita in un sistema onnicomprensivo che privilegiava la misurazione e il numero, e soprattutto diveniva una componente della scienza moderna. Isaac Newton (1642-1727) utilizzò la concezione aristotelica ripresa da Cartesio senza dubitarne. Immanuel Kant (1724-1804), nonostante introducesse la funzione del soggetto, indicando il tempo come senso interno e lo spazio come senso esterno, attraverso lo schematismo ritornava addirittura alle categorie aristoteliche. Abbiamo dovuto attendere il 1927 perché Martin Heidegger fornisse un'analisi precisa e approfondita delle concezioni del tempo, mostrando quanto ciò che ritenevamo come una verità scientificamente incontrovertibile non fosse altro che un concetto filosofico, un pensiero, un modo di vedere la realtà. È superfluo sottolineare come in Estremo Oriente, in particolare in India, Cina e Giappone, la concezione del tempo fosse elaborata in modo del tutto diverso. Quando la filosofia giapponese incontrò la filosofia europea, fu messa in evidenza questa discrepanza. Nishida Kitaro (1870-1945) cercò di ricomporre le due tradizioni eliminando il conflitto.<br /><br />"Si pensa comunemente che il tempo sia lineare, che vada dal passato al futuro. Il passato è passato e non è più. Il futuro non è ancora venuto e non è passato ancora. Così non c'è che il presente, l'istante che è presente. Ma l'istante che è presente non può essere il tempo. Il presente non si determina come presente altroché attraverso il passato e il futuro. Se il passato non c'è più, e il futuro non c'è ancora, il presente non ha né il passato né il futuro come confronto. E in questo caso il presente non ha alcun senso. Dunque il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente: orbene, la simultaneità è la caratteristica dello spazio. Quindi il tempo è spaziale. Se lo si chiama "determinazione lineare", il tempo può essere rappresentato da una linea perpendicolare, però può anche essere chiamato "determinazione circolare", lo spazio nel quale si rappresenta orizzontalmente, e lo si intende come un cerchio che si chiude. È così la determinazione lineare e la determinazione circolare, e viceversa."(3)<br /><br />Gli aspetti evidenziati dalla filosofia giapponese corrispondono anche a una diversità concettuale presente nelle tradizioni religiose occidentali e orientali. Nella concezione del tempo giudaico-cristiana c'è un creatore del tempo e dello spazio. Il tempo ha un inizio e uno svolgimento lineare. Nei culti politeisti shintoisti e buddhisti non vi è un unico dio creatore esterno, ma il cosmo stesso è divino e le forze naturali sono divinità creatrici. Il tempo non è prodotto da alcuno e non ha un andamento lineare. Nishida Kitaro risolve il problema dell'unità del cosmo introducendo il principio logico dell'identità delle contraddizioni. Egli può così affermare che l'uno è molteplice, e il molteplice è l'uno.Il passaggio da una concezione condivisa socialmente all'organizzazione materiale del lavoro è ciò che emerge da un'analisi tecnica dell'economia giapponese. Il modello industriale di Henry Ford proponeva la catena di montaggio secondo una logica sequenziale inesorabile. I tempi erano scanditi in modo inarrestabile secondo la concezione temporale prima esposta. Toyoda Kiichiro ritenne inadatto il modello americano alla situazione giapponese. Le riforme avviate nelle fabbriche Toyota portarono a un rovesciamento di questa logica. Se per gli occidentali il tempo e la produzione non potevano tornare indietro, per i giapponesi erano circolari e la produzione poteva girare invece di avanzare. Furono così creati i circoli di qualità, la catena di montaggio a isole, il blocco in linea per il miglioramento della produzione. E soprattutto l'applicazione del just in time, ovvero la produzione flessibile in base alle richieste. Così il tempo della fabbrica cambiava continuamente. Inoltre quando un prodotto non è soddisfacente, non si eliminano gli scarti in eccesso, ma si studia come evitare di produrre gli scarti. Lo scarto diventa un oggetto d'indagine, non qualcosa da buttare. Il tempo non è orientato alla produzione, piuttosto ai miglioramenti dei processi (kaizen). Il tempo non scorre secondo il succedersi degli eventi (il prima e il poi), ma ogni evento ha il suo tempo. Ciò che si misura non è la velocità di produzione, piuttosto la qualità totale.Se le interpretazioni di questi aspetti tecnici possono essere diverse, l'identificazione della specificità del sistema economico giapponese non è facilmente eliminabile. Nel sistema capitalistico il tempo è lineare e progressivo. Nel sistema sincretico giapponese il tempo è sia lineare sia circolare. L'economia giapponese è una variante del capitalismo che ha in sé caratteristiche eversive che spingono la società al superamento del modello occidentale. La differente concezione del tempo è un elemento fondamentale di questa specificità.<br /><br />Note<br /><br />1. Edward Said aveva messo in evidenza queste differenze in un suo articolo sul Giappone. Cfr. Said, Edward, Un arabo a Tokyo , in AA.VV., Sol levante, Internazionale, Roma, 1996, pp. 69-72. L'articolo era apparso sul quotidiano "Al-Hayat" del 10 luglio 1995.<br />2. Said, Edward, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-26.<br />3. AA.VV., Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, Marzorati, Milano, 1964, p. 1152.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Aristotele, Opere, Laterza, Roma-Bari, 1973.<br />Bezante, Alessandro e Martorella, Cristiano, Sul saggio di McDowell "De re senses", Relazione del corso di Filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1998.<br />Ishikawa, Kaoru, Che cos'è la qualità totale. Il modello giapponese, Il Sole 24 Ore, Milano, 1992.<br />Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.<br />Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1966.<br />Ohno, Taiichi [Ono Taiichi], Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale, Einaudi, Torino, 1993.<br />Severino, Emanuele, I principi del divenire, La Scuola, Brescia, 1959.<br />Womack, James e Jones, Daniel e Roos, Daniel, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, Milano, 1993.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-65730549462722780872010-11-18T01:22:00.000-08:002010-11-18T01:23:54.218-08:00Mu, il nulla indicibileArticolo sul concetto filosofico del nulla pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Mu, il nulla indicibile<br />di Cristiano Martorella<br /><br />16 maggio 2002. Fra i concetti filosofici esposti dal buddhismo zen, riveste una particolare importanza la singolare concezione del nulla (mu). Molti studiosi hanno evidenziato la profonda differenza fra la concezione orientale del nulla e la definizione occidentale assunta nel mondo moderno. In generale si intende il nulla come mancanza, assenza, o negazione. Queste definizioni non corrispondono al nulla del buddhismo zen. Hisamatsu Shin'ichi ha dedicato un testo, intitolato La pienezza del nulla, all'analisi delle differenze fra la concezione del nulla propria dello zen e le altre. Hisamatsu distingue alcune interpretazioni del nulla che non corrispondono affatto al nulla dello zen.<br /><br />1) Nulla come negazione della presenza.<br />2) Nulla come negazione del giudizio.<br />3) Nulla come idea.<br />4) Nulla come prodotto dell'immaginazione.<br />5) Nulla come assenza di coscienza.<br /><br />Il nulla come negazione della presenza nega l'esistenza di un ente in un luogo o in assoluto. Questa interpretazione del nulla, molto diffusa, si poggia sulla concezione dell'essere come presenza. Ma alcuni filosofi (fra cui Martin Heidegger) hanno contestato questa concezione ritenendola equivoca e limitativa. In Essere e tempo, Martin Heidegger rintraccia nella filosofia di Cartesio la concezione dell'essere come res extensa semplicemente presente. Come suo contrario viene così definito il nulla, ossia la negazione della presenza. Tuttavia questa definizione risulta insufficiente e fallace. L'essere non può venir inteso soltanto tramite una sua determinazione: la presenza. Così il nulla non può intendersi come l'assenza di una presenza. Si tratta della consueta modalità del pensiero occidentale caratterizzata dal dualismo e dal ragionamento tramite negazioni. Si definisce qualcosa come opposizione e negazione. Il buddhismo ricorre invece a una grande libertà di associazione poiché ritiene l'essere come una natura immanente. Il pensiero quotidiano, al contrario, rischia di limitare la comprensione del mondo escludendo le infinite possibilità dell'esistenza. Il nulla come giudizio è semplicemente la negazione di un predicato. Ad esempio, "il serpente non è un mammifero". Si tratta però di un formalismo. Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a qualcosa. Infine conosciamo pochissimo sulla vera natura delle cose. Il nulla come idea è un'altra astrazione. Quando diciamo che "il nulla non è l'essere" abbiamo soltanto stabilito un'opposizione. Ci accorgiamo così di conoscere ben poco su concetti che usiamo abitualmente come il nulla e l'essere. Il buddhismo zen riconosce questa nostra ignoranza e l'attribuisce al nostro modo consueto di ragionare. Perciò ritiene essenziale abbandonare gli schemi concettuali prestabiliti. Per far ciò preferisce l'applicazione di metodi pratici come la meditazione, ma non esclude la speculazione utilizzando i paradossi logici (koan) che distruggono ogni rappresentazione intellettuale. Hisamatsu fa notare come il nulla orientale non corrisponda alla concezione moderna dell'Occidente perché non suppone l'opposizione fra nulla ed essere. Egli ricorda in proposito lo Hyakuron di Daiba:<br /><br />"Tutto, essere e non-essere, è nulla. Perciò ogni dottrina buddhista insegna che nella nostra vera essenza tutto, essere e non-essere, è nulla."<br /><br />Hisamatsu introduce un altro argomento che ci permette di capire meglio questo punto. Il nulla dello zen non va interpretato come un'entità metafisica oppure ontologica. Perciò si esclude che esso sia l'esistenza o la mancanza di esistenza. L'autentico nulla dello zen è tutto perché è un principio psicologico che permea l'io. Ogni nostra sensazione e conoscenza si trova nell'io che è assoluta illusione, ovvero nulla. In questo senso tutto, davvero tutto, è nulla. Se pensiamo per un attimo di annullare l'io della nostra persona ci accorgiamo che spariscono anche le sensazioni e con loro l'intero mondo. La scoperta del buddhismo è talmente dirompente da costituire una novità anche per gli orientali. Lo zen, per molti versi, si oppone e costituisce una critica nei confronti del taoismo e del confucianesimo. Takuan Soho (1573-1645) scrisse nel Tokaiyawa parole molto dure in proposito:<br /><br />"Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta. Infatti lo considera unicamente un non-qualcosa e non capisce. Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. Io chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo. Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito."<br /><br />Takuan ripresenta la concezione dello zen che interpreta il nulla come una condizione psicologica capace di operare positivamente. Ed è infatti questo nulla che libera l'uomo da ogni preconcetto e atteggiamento. Secondo Suzuki Daisetsu, il nulla giunge continuamente a portata della nostra mano, è sempre con noi e in noi, condiziona la conoscenza, i nostri atti, la stessa vita. Ma quando tentiamo di coglierlo e presentarlo come una cosa, esso ci elude e svanisce. Si capisce che il nulla dello zen non può essere né metafisico, né ontologico, ma nemmeno psicologico. Esso è tutte queste cose insieme e nessuna di esse presa singolarmente. Secondo Hisamatsu, questo nulla è onnipresente e si estende sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici, eppure non ha manifestazione conoscibile dai sensi. Il nulla dello zen esclude ogni possibilità di essere determinato, ed è perciò veramente puro e intatto poiché assolutamente intangibile. Cos'è dunque questo nulla? Come si può descriverlo se è indicibile? Il buddhismo ricorre alla metafora dell'onda. Un'onda non cade dall'acqua dall'esterno, ma proviene dall'acqua senza separarsene. Scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima traccia di sé. Come onda si solleva dall'acqua e torna all'acqua. Come acqua esso è il movimento dell'acqua. Come onda l'acqua sorge e tramonta, e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. Questa è l'essenza del nulla zen.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.<br />Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.<br />Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.<br />Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il melangolo, Genova, 1993.<br />Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996.<br />Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992.<br />Sekida, Katsuki, Zen Training. Methods and Philosophy, Weatherhill, New York, 1975.<br />Suzuki, Daisetsu, The Zen Doctrine of No-Mind, Rider & Co., London, 1958.<br />Suzuki, Daisetsu, An Introduction to Zen Buddhism, Rider & Co., London, 1969.<br />Takuan, Soho, Lo zen e l'arte della spada, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-89243007353089104262010-11-18T01:20:00.000-08:002010-11-18T01:22:20.735-08:00IshindenshinArticolo pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.12-13.<br /><br />Filosofare da cuore a cuore<br />di Cristiano Martorella<br /><br />La parola zen deriva dal cinese ch’an, a sua volta adattamento dal sanscrito dhyana e del pali jhana. Con questo termine si indica semplicemente la meditazione, ma ha assunto anche il significato di un tipo di buddhismo giapponese dal nome della setta omonima. La leggenda narra che il primo patriarca dello zen fu Kashyapa. Durante un’assemblea Buddha rimase misteriosamente silenzioso guardando semplicemente un fiore che teneva in mano. Poi rivolse lo sguardo ai discepoli. Nessuno lo comprese tranne Kashyapa che gli sorrise. Buddha ricambiò il sorriso e questa fu l’illuminazione del suo allievo. La leggenda indica chiaramente le caratteristiche del buddhismo zen che si concentra sul fenomeno dell’esperienza dell’illuminazione. Lo strumento per raggiungere l’illuminazione è la meditazione. La meditazione è, secondo Taisen Deshimaru, la condizione originale del corpo e della mente liberati dai condizionamenti. Quanto ciò sia facile da dire e difficile da applicare è ben noto a chi pratica lo zen che è sicuramente una scuola buddhista dalla disciplina severa e austera, e tuttavia affascinante per gli occidentali. Motivo di tanto interesse è dovuto anche all’influenza che lo zen ha avuto sulle arti giapponesi. Dal teatro (no) alla calligrafia (shodo), dall’arte della disposizione dei fiori (ikebana) alla cerimonia del tè (chanoyu), dal tiro con l’arco (kyudo) alla scherma (kendo), ogni arte giapponese sembra permeata dai princìpi dello zen. La ragione è da ritrovare nella flessibilità amorfa della pratica zen. In effetti non è zen ciò che si fa, ma come si fa. A questo punto è necessario un passo indietro per approfondire alcuni aspetti del buddhismo e comprendere cosa si intenda per pratica zen.<br />Il dilemma della condizione umana è nell’essere afflitti da tormenti e tribolazioni generati da una mente incapace di restare tranquilla. La soluzione non è nell’attitudine del pensiero, nelle idee, che più spesso sono la causa del dilemma, e nemmeno in una condizione fisica che ignora il malessere mentale. C’è bisogno di una pratica che sappia risolvere il conflitto fra la mente e la realtà, il pensiero e il corpo, l’individuo e l’ambiente, la vita e la morte, insomma la soluzione di ogni dualismo. Infine ecco l’illuminazione immediata secondo l’insegnamento dello zen. L’illuminazione è l’esperienza della percezione dell’identità delle contraddizioni. Il dualismo è soltanto un’idea della mente, la realtà è l’unità dei fenomeni dell’universo. Chi riconosce il carattere illusorio del conflitto si emancipa dai ceppi che impediscono alla mente di vedere il carattere autentico del quotidiano. La mente dell’illuminazione (bodaishin) è la mente che vive in accordo con la realtà del sé e delle cose, libera da attaccamenti e condizionamenti. Il metodo per sviluppare la mente dell’illuminazione è la via di Buddha (butsudo) senza spirito di profitto (mushotoku). Concretamente ciò si può realizzare in diversi modi, e infatti sono diverse le tecniche usate dalle scuole zen. La setta Rinzai adotta lo zen della meditazione sulle parole (kanna zen) attraverso i koan, paradossi logici, mentre la setta Soto applica lo zen dell’illuminazione silenziosa (mokusho zen) tramite lo zazen, il restare seduti. Lo zazen è una pratica enigmatica nella sua semplicità e banalità, la quale consiste nello stare seduti in quiete senza tensione e senza torpore. Questa semplice condizione, se guidata dalla consapevolezza del corretto insegnamento buddhista, porta all’unità inscindibile di corpo e mente (shinjin ichinyo) e alla liberazione della mente che non si attacca e fissa ai pensieri, ma accetta il cambiamento del reale. Lo zen è dunque la realizzazione della mente originale, mentre il resto è vaneggiamento mondano e illusorio.<br />Caratteristica dello zen è l’importanza attribuita al metodo dell’insegnamento detto "da cuore a cuore" (ishindenshin) che è simboleggiato dall’illuminazione di Kashyapa. Il vero insegnamento di Buddha non è una conoscenza concettuale trasmissibile tramite le parole, piuttosto è l’intuizione del reale aspetto di tutti i fenomeni e la visione (kensho) dell’autentico sé. Questa intuizione non può avvenire e nemmeno essere trasmessa attraverso i pensieri, bensì può essere indotta soltanto con l’apertura della mente alla ricezione e al raggiungimento dell’illuminazione immediata. D’altronde la stessa definizione di illuminazione immediata rimanda etimologicamente a qualcosa che non è mediato. Da un punto di vista filosofico occidentale ciò rappresenterebbe un ostacolo rilevante. Trasmettere un insegnamento senza l’ausilio del pensiero è inconcepibile. Tuttavia per il buddhismo zen ogni pensiero è illusorio perché è di parte, relativo, particolare, finito, insomma non conosce l’assoluto. Meglio allora liberarsi di questo pensiero restando seduti in silenzio. Drastico ed efficace. Così è lo zen, austero e severo, irremovibile dalla necessità di estirpare l’errore dalla mente umana. Così come Bodhidharma che rimase seduto in meditazione per nove anni rivolto al muro.<br />Il carattere non speculativo dello zen spiega la sua penetrazione nelle arti giapponesi. Lo zen è pratica continua e applicazione costante in ogni aspetto della vita. L’arte ha inteso sommamente questo interesse per la vita svincolata da condizionamenti e costrizioni, e perciò l’ha esaltato in massimo grado. Non è nemmeno trascurabile il fatto storico ossia che i maestri dello zen più importanti siano stati giapponesi come Dogen, Keizan, Ikkyu, Hakuin, Bankei e Deshimaru. Per questi motivi si può affermare che il tratto caratteristico della cultura giapponese è tipicamente buddhista e zen, a differenza della Cina profondamente e orgogliosamente confuciana. Il Giappone è perciò il paese attualmente più vicino all’insegnamento dello zen.<br />In conclusione, a che serve allora lo zen? A niente. Lo scopo dello zen è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio. Sconcertante, eppure lo zen è semplicemente questo.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano, 1992.<br />Deshimaru, Taisen, Autobiografia di un monaco zen, Mondadori, Milano, 1995.<br />Guareschi, Fausto Taiten (a cura di), Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.<br />Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993.<br />Hoover, Thomas, La cultura zen, Mondadori, Milano, 1981.<br />Lamparelli, Carlo, Il libro delle 399 meditazioni zen, Mondadori, Milano,<br />La Rosa, Giorgio Dizionario delle religioni orientali, Garzanti, Milano, 1993.<br />Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.<br />Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.<br />Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 1992.<br />Suzuki, Shunryu, Mente zen, mente di principiante, Astrolabio, Roma, 1977.<br />Watts, Alan, Beat zen e altri saggi, Arcana, Milano, 1978.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-1632858026518572232010-11-18T01:18:00.000-08:002010-11-18T01:20:09.045-08:00La verità e il luogoArticolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.<br /><br /><br />La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.<br />di Cristiano Martorella<br /><br />Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.<br />La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).<br />Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.<br />Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.<br />Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo), ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.<br />"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)<br />"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)<br />"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)<br />"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)<br />"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)<br />"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)<br />Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.<br />Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.<br />Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.<br />Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.<br />Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.<br />Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.<br />Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.<br />Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.<br /><br /><br /><br />Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-85892095740278597192010-11-18T01:16:00.000-08:002010-11-18T01:18:16.452-08:00Wakugumi, il paradigma teoricoArticolo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Wakugumi.<br /><br />Wakugumi<br />Il nuovo paradigma teorico della filosofia giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />1. Nuovo paradigma<br /><br />Nella terminologia filosofica si indica con paradigma (dal greco parádeigma) un insieme di teorie e pratiche che funge da modello nell’organizzazione del sapere scientifico. In inglese il termine è anche reso con la parola framework. In giapponese con wakugumi. In particolare si definisce con rironteki wakugumi un paradigma teorico.<br />Il termine paradigma ebbe ampia diffusione grazie all’uso che ne fece il filosofo americano Thomas Kuhn. Secondo Kuhn la scienza di un’epoca si rifarebbe a certi paradigmi scientifici finché le teorie non si dimostrano incapaci di produrre spiegazioni. In tal caso il paradigma dominante cade in disgrazia e viene sostituito da un nuovo paradigma. Fu quanto accadde con la teoria geocentrica tolemaica sostituita dalla teoria eliocentrica copernicana.<br />Kuhn mise in luce anche l’influenza di fattori di natura sociale e psicologica sulle scelte teoriche degli scienziati (1). Inoltre contestava l’idea che fosse possibile un progresso scientifico che conquisti incessantemente una sempre maggiore porzione di verità. Infatti, i paradigmi scientifici si sostituirebbero l’un l’altro e non dipenderebbero esclusivamente dalla teoria, ma piuttosto dal grado di sviluppo della società. Perciò la filosofia della scienza di Thomas Kuhn è anche una concezione alternativa e antitetica all’epistemologia di Karl Popper e all’empirismo logico di Rudolf Carnap (2).<br />La filosofia giapponese (è però corretto chiamarla nippo-europea considerando le sue origini) trattò presto le complesse questioni di filosofia della scienza affrontate agli inizi del Novecento in Europa e America. Tanabe Hajime scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla scienza) (3). Miki Kiyoshi, allievo di Nishida Kitaro, espresse una posizione teorica che riconosceva l’influenza della società nei confronti del sapere scientifico, così come sostenuto da Thomas Kuhn. Secondo Miki le idee e le teorie nascerebbero sotto l’influsso e la spinta delle forze storiche (4). Questo rapido avvicinamento alle problematiche della scienza, e soprattutto il forte sviluppo tecnico del Giappone, posero i filosofi giapponesi nella posizione di poter giudicare i fatti secondo due prospettive differenti. Da una parte la tradizione della saggezza orientale fondata su un sapere intuitivo. Dall’altra parte la scienza occidentale dotata di metodologie e capacità analitiche. Non è sempre detto che queste prospettive siano opposte. Come vedremo più avanti, la filosofia nippo-europea ha costituito una sintesi di queste diverse forme di sapere.<br /><br />2. Filosofia passata<br /><br />Unificare la filosofia orientale e la filosofia occidentale in un unico paradigma. Ma è davvero tanto necessario? In realtà ciò non nasce soltanto da un’esigenza intellettuale. La filosofia orientale gode di una sua autonomia e un certo credito, e la filosofia occidentale continua a sussistere nonostante le tante difficoltà. Le questioni filosofiche del pensiero occidentale e di quello orientale possono continuare a rimanere separate. Resta però un ambito che non appare nella ricerca dell’intellettuale: l’esigenza storica. Senza l’unificazione del pensiero occidentale e del pensiero orientale non è concepibile una civiltà planetaria. L’ipotesi dell’affermazione del pensiero occidentale sull’intero pianeta è ben lontana dalla realtà. Quest’ultimo è minato alle sue basi da tendenze irrazionalistiche che si manifestano con intensità sempre più forte nella vita quotidiana. La confusione regna nell’odierno pensiero, incapace di riconoscere i fenomeni storici e culturali, troppo debole per proporre chiavi di lettura efficaci della realtà. Da molte parti si parla di crisi del pensiero occidentale, gettandosi senza criterio nelle braccia di pseudo-sistemi filosofici che si rifarebbero alla saggezza orientale. Oppure ci si barrica in difesa di una presunta superiorità della civiltà occidentale e della sua scienza. Contro tutto ciò si deve ergere una scienza filosofica abbastanza forte da respingere atteggiamenti esasperati e dettati da un’emotività incontrollata che si mascherano dietro nuovi idoli. Per rispondere a questa esigenza storica e sociale bisogna unificare il pensiero sotto un unico paradigma capace di comprendere anche ciò che viene considerato irrazionale. Il nostro intento è ricondurre l’irrazionale sotto una luce diversa, alla lettura di differenti forme di razionalità. Il concetto più flessibile di razionalità da noi elaborato dovrebbe permetterci di coniugare quindi le due forme di pensiero occidentale e orientale (5). Abbiamo però bisogno di procedere in un modo particolare. Affrontando la filosofia occidentale e la filosofia orientale in maniera tecnica, esse diverrebbero incomunicabili a causa dei diversi linguaggi. Noi conosciamo benissimo entrambe le terminologie e ci rendiamo conto dell’impossibilità di parlare di concetti diversi usando un unico linguaggio. Quel linguaggio filosofico che non esiste ancora. Per risolvere questo problema dobbiamo spogliarci del nostro habitus, non parlare più come filosofi, ma come ingenui pensatori. Dobbiamo raggiungere la massima semplificazione dei temi trattati. Quindi introdurremo pochissimi concetti e li spiegheremo in maniera davvero elementare.<br />La filosofia giapponese ci fornisce una frase che è la sintesi della riflessione zen: ku soku ze shiki. Abbiamo la seconda parte che corrisponde alla lettura capovolta della stessa frase: shiki soku ze ku La circolarità del pensiero è presente sia nella concezione giapponese, e più in generale orientale, sia nell’ermeneutica filosofica. Costituisce una similitudine molto importante ed è giusto metterlo in luce anche in questo caso.<br />La traduzione più semplice è: "il vuoto è la forma e la forma è il vuoto"(ku soku ze shiki, shiki soku ze ku). Si tratta di un brano dell’importante Sutra del cuore (6).<br />La traduzione letterale è: "non c’è cielo senza colore, non c’è colore senza il cielo". Nella lingua giapponese l’ideogramma di cielo indica anche il vuoto, e quello del colore indica le cose sensibili (7). Dunque un’altra possibile traduzione potrebbe essere: "non c’è vuoto senza colore, non c’è colore senza vuoto". Da cui consegue anche: "non c’è il nulla senza le forme sensibili, non ci sono forme sensibili senza il nulla".<br />Resta un punto da chiarire. Il nulla giapponese (mu) viene identificato nella frase del Sutra del cuore con la "forma". Dunque cosa si intende con nulla?<br />Tenendo conto del senso giapponese del nulla, un’altra traduzione possibile potrebbe essere: "la forma è il contenuto e il contenuto è la forma". Questo nulla è un principio metafisico. Il nulla sarebbe l’indistinto e l’indeterminato da cui scaturiscono ed emergono le cose sensibili. Perciò alcuni traduttori lo considerano anche come "essere". Per la dottrina zen, questo nulla ha però un valore conoscitivo. Il vuoto mentale (mushin) permette la comprensione delle cose. Dunque la filosofia giapponese considera il nulla come un principio della conoscenza. L’essenza delle cose e la conoscenza coincidono. C’è un’identità fra gnoseologia, logica e ontologia. Ed è possibile grazie alle proprietà del pensiero giapponese che si rifanno alla tradizione orientale, la filosofia del passato.<br /><br />3. Filosofia presente<br /><br />Ma il centro della riflessione del Sutra del cuore fa parte anche degli ultimi indirizzi dell’epistemologia contemporanea. Ormai è presente anche nel pensiero occidentale il riconoscimento della necessità di eliminare la distinzione fra la forma e il contenuto. Quando Donald Davidson (8) afferma che si deve abbattere la distinzione fra schema e contenuto non sta forse usando una terminologia diversa per indicare ciò che è affermato anche dalla filosofia giapponese? Vediamo con precisione questa corrispondenza. I giapponesi usano la parola iro (9) per indicare le cose sensibili, più in generale le sensazioni. Davidson usa il termine "contenuto empirico" per indicare l’esperienza sensibile. Il nulla giapponese corrisponde alla conoscenza ultima della realtà, l’essenza dell’essere, la metafisica orientale. Dall’altra parte Davidson parla di "schema concettuale" ossia di un sistema concettuale metafisico. La corrispondenza fra la "metafisica" del nulla e la "metafisica" dello schema concettuale è perfetta. Sia Davidson che la filosofia giapponese si stanno riferendo alla stesso concetto. Ci accorgiamo che la critica al terzo dogma dell’empirismo di Davidson corrisponde ai principi del Sutra del cuore. Inoltre Davidson, sostenuto dagli studi di Sellars, critica il "mito del dato". Anche lo zen ritiene i dati sensibili illusori, e che non si possa fondare una conoscenza perfetta su di essi.<br />Ma l’affermazione di identità fra il nulla e l’esperienza sensibile, lo schema concettuale e i contenuti empirici, finisce per fornire una diversa concezione dello schema concettuale e della metafisica. La metafisica, più in generale l’attività concettuale, non può esistere senza esperienza sensibile. Perciò è impensabile il vuoto senza le cose sensibili e il pensiero senza l’esperienza. Infine tutto ciò che è formale viene riportato al concreto: la forma è l’essere, l’essere è la forma. E ciò corrisponde anche alla nostra proposta di riportare la nozione di schema concettuale in un ambito più concreto, in quello operativo di habit.<br />La convergenza dello zen giapponese e dell’epistemologia contemporanea non è una coincidenza. C’è una presa di coscienza della confluenza della riflessione filosofica di duemila anni. Si può sperare che dopo qualche millennio di speculazione filosofica sia possibile trovare delle conclusioni comuni a tutti gli uomini di questo pianeta.<br /><br />4. Filosofia futura<br /><br />Non ci resta che riconoscere l’esistenza di un cammino comune della filosofia giapponese, europea e americana. Come si coglie dalla nostra trattazione, non sussiste alcun motivo di separazione fra questi indirizzi della filosofia. C’è una sola difficoltà: trovare gli ingegni capaci di unificare tale pensiero. Purtroppo gli istituti culturali non hanno ancora presente questa situazione e non sentono il bisogno di unificare le filosofie di culture diverse. Ma ci sembrerebbe veramente strano che la nostra proposta e lo studio che abbiamo presentato sia un caso singolare nel panorama scientifico. Capiamo le difficoltà che sorgono nel dover possedere un bagaglio di conoscenze che permetta di destreggiarsi con la filosofia giapponese e occidentale, però non possiamo credere di essere gli unici capaci di concepire e pensare qualcosa del genere.<br />Un ultimo problema va risolto. Quello del realismo opposto al relativismo. Ci si chiede se è possibile conoscere la realtà finale delle cose. Questo punto trova una soluzione nella seguente affermazione di Edmund Husserl:<br /><br />"L’effettivo processo delle nostre umane esperienze è tale da costringere la nostra ragione a superare le cose date visibilmente e a sostituirvi una «verità scientifica». Piuttosto si può pensare che il nostro mondo visibile sia l’ultimo, "dietro" il quale non ci sarebbe nessun mondo "fisico" ossia che le date cose nella percezione non ammettano una determinazione fisico-matematica, che i dati dell’esperienza escludano qualunque fisica sul tipo della nostra." (10)<br /><br />La posizione di Husserl coincide con quella della filosofia giapponese, e ciò è testimoniato anche da molti lavori di filosofi giapponesi che hanno visto nella fenomenologia di Husserl un certa corrispondenza. Il vecchio motto di Husserl, "ritornare alle cose così come sono" coincide perfettamente con l’idea giapponese di "mono o aware" (percepire il sentimento delle cose). Come abbiamo visto, la filosofia giapponese è radicalmente fenomenologica e tratta gli argomenti sempre in relazione alle percezioni e alla coscienza. Ma l’idea di Husserl, che si trova anche nel pensiero giapponese, permette di abbandonare qualsiasi opposizione fra realismo e relativismo. Se non esiste una verità ultima e tutto quello che abbiamo sono le percezioni, d’altronde non ha senso parlare di altre realtà. Sia il realismo che il relativismo non sussistono. Si tratta di un problema, come fa notare Husserl, nato dalla nostra concezione della "verità scientifica". Come direbbe Wittgenstein, esso è uno pseudo-problema nato da una cattiva terminologia, dall’uso improprio del linguaggio. Infatti il problema della "realtà ultima delle cose" è soltanto una questione dibattuta dai filosofi che possiedono un linguaggio tecnico capace di amplificare gli errori linguistici. Chi è privo di tale linguaggio è incapace anche di porre la questione.<br />Non è pensabile qualcosa di diverso da ciò che ci forniscono i nostri sensi. Non abbiamo altro a disposizione. Le nostre costruzioni concettuali non possono controllare le sensazioni. L’intelletto permette di interagire con la realtà, ma il suo potere sulla sensazione non è assoluto. Non possiamo negare la realtà delle sensazioni, anche se sono fallibili e imprecise. L’intelletto non può sostituirsi ai sensi.<br />Infine il dubbio è alla base di ogni sano pensare. Qualsiasi indagine scientifica e filosofica non può fondarsi su certezza ed esattezza. Il dubbio resta la misura dell’efficacia del pensiero. La correttezza è il risultato dell’interagire fra il dubbio e la conoscenza. Minori sono i dubbi, maggiore è il nostro potere esplicativo. Ma se i dubbi sono completamente annientati, allora essi sono stati sostituiti da una fede e dal fanatismo. Non siamo più filosofi né scienziati ma incantatori.<br />Vogliamo concludere con un passo di Richard Rorty che abbiamo già citato perché crediamo che l’osservazione del filosofo americano sia in linea con i nostri intenti.<br /><br />"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l’idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (11)<br /><br />Il nostro lavoro costituisce un’alternativa, come auspicato da Rorty, che va oltre il realismo e l’idealismo poiché la logica giapponese non assume la verità né come coerenza né come corrispondenza. La filosofia giapponese non elabora costrutti teorici e concettuali sugli oggetti e questo impedisce che sorgano questioni del genere. Abbandonata ogni forma di dualismo, non resta alla filosofia che rinunciare a occuparsi della conoscenza oggettiva delle cose, per puntare la sua attenzione alla comprensione delle azioni sulle cose. Il passaggio da una filosofia speculativa teoretica a una filosofia sperimentale interazionistica sarebbe del tutto naturale. Qualcuno potrebbe chiedersi se sarebbe corretto chiamare ancora filosofia questo genere di attività. La risposta è che nessuno ci obbliga a fare filosofia secondo un modo consuetudinario.<br /><br />Note<br /><br />1. Cfr. Kuhn, Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978.<br />2. Popper, Karl, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1976; Carnap, Rudolf, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze, 1976.<br />3. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.<br />4. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.<br />5. La concezione alternativa della razionalità che abbiamo elaborata ci è servita per spiegare le caratteristica dell’economia giapponese. Cfr. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.<br />6. Si può leggere una traduzione in italiano del Sutra del cuore in Hakuin, Veleno per il cuore, Ubaldini, Roma, 1998, pp.143-144.<br />7. La frase fu al centro della riflessione del dialogo fra Heidegger e il filosofo giapponese Tezuka Tomio. Cfr. Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1990, p.93. Bisogna ricordare che molti filosofi giapponesi studiarono in Germania sotto la guida di Heidegger all’inizio del XX secolo. I rapporti, purtroppo poco noti, fra la filosofia occidentale e giapponese sono dunque già stati stretti in altri tempi. Si consulti Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.<br />8. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.<br />9. Nella frase citata è shiki. In giapponese esistono diverse pronunce per lo stesso ideogramma. Iro è la lettura kun yomi e shiki è la lettura on yomi.<br />10. Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965, Par.47, Cap.3, Sez.2, p.103.<br />11. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p.51.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-77099446839067340922010-11-18T01:14:00.000-08:002010-11-18T01:16:15.075-08:00Chishiki, conoscenza e ignoranzaArticolo sul concetto di ignoranza nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Chishiki.<br /><br />Chishiki<br />La conoscenza attraverso la consapevolezza dell’ignoranza<br />di Cristiano Martorella<br /><br />18 settembre 2002. Chishiki to mushin, ovvero conoscenza e vuoto mentale. Due realtà apparentemente opposte. Però la filosofia giapponese fornisce alcuni concetti alternativi al pensiero occidentale che costituiscono un fondamentale arricchimento del sapere umano. Questa semplice osservazione si rivela ancor più vera dinanzi ai concetti di conoscenza (chishiki) e ignoranza.<br />Negli ultimi anni si è consolidata in Occidente una concezione della conoscenza esposta dall’epistemologia americana. In particolare il funzionalismo computazionale ha propagandato una visione del pensiero riconducibile alla macchina a stati finiti ideata da Alan Turing. L’idea di una macchina pensante fu sostenuta da Turing in un celebre articolo apparso nella rivista "Mind" nel 1950 (1).<br />Piuttosto che affrontare complesse indagini sulla natura del pensiero, Alan Turing si limitò a proporre la possibilità che una macchina potesse imitare le risposte di un uomo rendendosi indistinguibile. Il "test di Turing" prevedeva che l’intelligenza artificiale non sarebbe stata distinguibile dall’intelligenza umana.<br /><br />"Un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano." (2)<br /><br />Il successo del funzionalismo computazionale fu favorito dal rapido sviluppo dei calcolatori e dell’informatica che sembrava convalidare le tesi e l’ottimismo di Alan Turing (3). Ma la tesi secondo cui la mente funziona come un computer digitale non si basa su risultati concreti, piuttosto è la considerazione dell’idea dell’intelligenza come calcolo e manipolazione formale di simboli (una tradizione consolidata nella scienza occidentale e anticipata da Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz). Si tratta dunque di una teoria interna alla filosofia occidentale, e non è affatto un problema di ingegneria elettronica come appare.<br />Tuttavia l’intelligenza artificiale aveva assunto un ruolo talmente propositivo da diventare un argomento filosofico autonomo, specialmente in quella disciplina definita filosofia della mente (ma anche nella filosofia del linguaggio e della scienza, nella psicologia cognitiva, senza dimenticare il ruolo dominante nelle neuroscienze). L’epistemologia americana diede immensa considerazione alle teorie e ricerche di questi studiosi. Allen Newell ed Herbert Simon sembrarono rappresentare i capostipiti di una nuova concezione della mente, del pensiero e della filosofia. Qualcosa che sembrava fornire risultati più concreti delle precedenti tradizioni filosofiche. Jerry Fodor ed Hilary Putnam contribuirono ad elaborare un insieme di tematiche che diedero spessore e dignità all’intelligenza artificiale come disciplina filosofica. Ciò ebbe una ricaduta notevole sulle consuete concezioni di conoscenza e pensiero. Fodor fornì anche un tentativo di spiegazione del funzionamento della mente umana e del linguaggio (4).<br />Nonostante l’approccio orientato alla tecnologia, l’epistemologia americana si rivelava più conservatrice di quanto invece apparisse. Il modello dell’uomo come macchina era un’elaborazione cartesiana (5). Risulta interessante constatare come il dualismo cartesiano mente/corpo corrisponda al dualismo informatico software/hardware, rivelando l’antichità di questa concezione. E la formalizzazione del linguaggio era un progetto leibniziano (6).<br />L’epistemologia americana non ha fatto altro che radicalizzare una tendenza della filosofia occidentale giustificandola con i successi della tecnologia informatica. Purtroppo queste discipline sono accostate in modo arbitrario. L’ingegneria elettronica non necessita di alcuna giustificazione filosofica, mentre l’epistemologia sembra approfittare dei vantaggi dell’elettronica per avallare le sue tesi.<br />Il risultato più evidente e scandaloso è nella concezione della conoscenza come dato cumulativo. Il sapere è ridotto a una serie di informazioni, come in un database, conservate e organizzate. La filosofia orientale sembra non condividere questa visione della conoscenza. Addirittura lo zen suggerisce che la vera conoscenza sia soltanto quella ottenuta tramite il vuoto mentale (mushin). Comunque, il buddhismo sposta drasticamente l’attenzione dalla conoscenza alla consapevolezza dell’ignoranza. Credere di conoscere sembra la maniera più ovvia per evitare di conoscere. Perciò il buddhismo pone la "consapevolezza dell’ignoranza" come uno dei sei pilastri della saggezza.<br />La consapevolezza dell’ignoranza non è una dottrina esclusivamente orientale, ma apparteneva anche alla tradizione degli antichi greci. Il saggio Socrate, nominato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra i greci, affermò di non sapere così da conoscere qualcosa in più rispetto a chi credeva di sapere senza sapere. A parte il contenuto sofistico della frase socratica, il filosofo ateniese era veramente coerente con quanto affermava. Lo zen rifiuta la dottrina scritta insistendo invece su metodi che risveglino la consapevolezza dell’allievo. Socrate applicava un metodo detto maieutica che rifiutava la scrittura preferendo ad essa il dialogo (dialéghesthai). L’Occidente vide nelle stranezze di Socrate un atteggiamento eversivo e politicamente pericoloso, e lo si condannò quindi a morte nel 399 a.C. Questo fu il caso più eclatante (ma non l’unico, si pensi anche a Giordano Bruno nel 1600) dell’intolleranza delle società occidentali nei confronti di chi metteva in dubbio la conoscenza ufficiale. Ciò rivelava anche quanto la conoscenza fosse identificata con il potere. Atteggiamento non dissimile da quello attuale nei confronti dell’informazione e dei mass-media.<br />Rompere i ceppi che imprigionano la mente umana è il compito che si è assegnato il buddhismo zen. A questo punto la conoscenza si rivela un fardello opprimente che ci impedisce di muoverci. D’altronde Buddha aveva insegnato che è l’attaccamento a generare la sofferenza. Ecco come Deshimaru riassume questi princìpi.<br /><br />"Spezzare i legami, le abitudini, amare senza desiderio di possesso, agire senza finalità personali, tenere le mani aperte, donare, abbandonare ogni cosa senza paura di perdere: ecco la disciplina dell’adepto zen ! La verità risiede nella semplicità. […] Il maestro Dogen ha detto: Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostra dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia." (7)<br /><br />Come si può pensare di conoscere se ci si attacca a quattro stracci di idee come a un feticcio? Il buddhismo zen vanifica l’edificio occidentale della sapienza come accumulazione di dati e ci apre una prospettiva molto più ricca. In concordanza con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale (in particolare Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger) si mette in dubbio la concezione cumulativa della conoscenza.<br />Per il filosofo Nishida Kitaro la conoscenza è un’azione piuttosto che il possesso di dati.<br /><br />"Secondo l’epistemologia tradizionale, la conoscenza viene costruita secondo il soggetto cognitivo, e all’opposto il dato è pensato come meramente materiale o latente. […] Tuttavia, conoscere è agire e per agire si deve dare un fondamento. Di che cosa si tratta? Deve essere sempre il mondo della realtà che viene colto nell’intuizione attiva." (8)<br /><br />Insomma, la prospettiva del funzionalismo computazionale è viziata alla base dalla mancanza di un rapporto con la realtà (9). Non è sufficiente riprodurre il mondo nel computer per fingere di conoscerlo. E altrettanto vale per la mente umana che crede di conoscere tramite le rappresentazioni. La difficoltà non è quindi attribuibile alla tecnologia ancora una volta imputata ingiustamente di meriti o colpe che non la riguardano. Piuttosto questa conoscenza non è verace a causa di un errore filosofico, quindi umano. Ma questa consapevolezza può renderci ancora più disponibili e aperti verso il mondo, perché sapere di non sapere è il primo passo per il risveglio dell’intelletto.<br /><br />Note<br /><br />1. Turing, Alan, Computing Machinery and Intelligence, in "Mind", vol.59, 1950, pp.433-460.<br />2. Bechtel, William, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1992, p.194.<br />3. L’articolo di Turing era ben articolato e sviluppato, prendendo in considerazione anche le possibili obiezioni. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein prese in seria considerazione il quesito di Turing: "Potrebbe pensare una macchina?" Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.<br />4. Fodor, Jerry, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988; Fodor, Jerry, Il problema del significato nella filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1990.<br />5. Descartes, René, Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986.<br />6. Russell, Bertrand, La filosofia di Leibniz, Newton Compton, Roma, 1972.<br />7. Deshimaru, Taisen, Il vero zen, SE, Milano, 1993, pp.24-25.<br />8. Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001, p.49.<br />9. Circa la posizione dell’epistemologia americana si legga anche l’opera di Hilary Putnam, importante esponente di questa corrente filosofica. Cfr. Putnam, Hilary, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-38920893041841533432010-11-18T01:12:00.000-08:002010-12-06T02:37:09.007-08:00Ronri, la logica giapponeseArticolo sulla logica giapponese pubblicato da sito Nipponico.com alla voce Ronri.<br /><br />Ronri, la logica giapponese del concreto<br />di Cristiano Martorella<br /><br />25 giugno 2002. La parola giapponese ronri traduce sia nel linguaggio ordinario sia nella terminologia filosofica la parola logica. Ma la corrispondenza fra le due parole, se è possibile nel linguaggio ordinario, presenta enormi divergenze e differenze nel pensiero filosofico. Ronri è composto da due kanji: ron (discussione, teoria) e ri (ragione). Però il significato di ragione è decisamente diverso nelle antiche civiltà orientali. Elémire Zolla, nel suo La nube del telaio, ci ricorda questa distinzione.<br /><br />"[…] li [la ragione: li in cinese, ri in giapponese; ndr] nel suo ideogramma contiene un campo sul quale si impianta un villaggio. L’irrazionale sarà dunque ciò che non rientra nelle costumanze di un borgo. In genere nelle civiltà orientali l’opposizione di ragione a irrazionalità non ha il pathos che la contrassegna in Europa. Uno dei motivi è che la diade si trasfonde naturalmente in triade o una quadripartizione. Questa propensione si può chiamare, oltre che indiana, orientale in genere. […] Nel sistema castale indù il contrasto fra l’emozione scatenata ed energica del guerriero e la razionale quiete del bramino è mediato dalla convivenza con la casta dei mercanti e quella dei contadini […] Sempre in India la diade si risolve in triade e quindi in mediazione. Fra conoscente e conosciuto media il conoscere, fra soggetto e oggetto l’unione, fra amante e amato l’amore. Si può dire che fra ragione e irrazionalità, nella misura in cui si presentino, media l’ispirazione."<br /><br />Zolla fa notare anche che la logica indiana non ignorava le regole della logica rigorosa del genere aristotelico. Questi meccanismi del pensiero era conosciuti ed erano stati enunciati nel Nyaya Sutra nel periodo compreso fra il 200 a.C. e il 150 d.C., così come il sillogismo esposto in cinque passaggi (tesi, enunciazione, ragione, esempio probante, applicazione). Dunque la sapienza orientale partiva dal riconoscimento di questi meccanismi del pensiero, ma li considerava insufficienti (al contrario degli occidentali che li pongono come princìpi). Fu soprattutto il buddhismo a enfatizzare questa considerazione della logica, della ragione e del pensiero. Nagarjuna, saggio buddhista indiano vissuto intorno al II secolo d.C., mise in crisi le poche certezze della logica e del pensiero discorsivo nello Sterminio degli errori. Elémire Zolla riassume così le caratteristiche salienti del buddhismo:<br /><br />"La logica buddhista nega che di qualsiasi oggetto si possa dire che esista o non esista, che esista e non esista, o che non esista e non esista […]"<br /><br />Il pensiero occidentale in modo indipendente si avvicinò spesso alle stesse posizioni, ma fu presto ricondotto nei binari della logica formale, nella tradizione aristotelica-tomistica. Ad esempio, Johannes Eckhart (1260-1327) aveva esposto gli stessi dubbi sulla logica giungendo a conclusioni simili ai saggi buddisti, ma ricevette gravi accuse di eresia. La logica occidentale, supportata da un apparato politico e ideologico (rinnegarla significava bruciare sul rogo come accadde per Giordano Bruno nel 1600), indicava una rigida corrispondenza fra realtà e pensiero. Il principio era esposto come adaequatio rei et intellectus. La verità era una semplice corrispondenza fra il pensiero e le cose. Una concezione estremamente lontana e incompatibile dalla logica buddhista. In effetti si deve considerare seriamente la pericolosità del pensiero occidentale che pretende di poter ricondurre la realtà ad un’immagine mentale (rappresentazione). In questo modo sfuggirà la complessità e pluralità dell’esistenza, e per non ammettere l’ignoranza si negherà e violenterà la realtà finché apparirà come la pensiamo.<br />Invece il buddhismo ammette e riconosce l’ignoranza ritenendo che lo scopo della dottrina sia renderci consapevoli dell’ignoranza piuttosto che inorgoglirci della conoscenza. La consapevolezza dell’ignoranza è uno dei "sei pilastri della saggezza" (consapevolezza dell’io, del presente, dell’impermanenza, dell’universo, dell’ignoranza, dell’amore).<br />Nel XIX e XX secolo la filosofia giapponese si arricchì di ulteriori riflessioni avendo approfondito lo studio del pensiero occidentale (non sempre arroccato sulle consuete e fallaci posizioni che abbiamo prima esposto). I filosofi giapponesi trovarono estremamente interessante l’elaborazione intellettuale degli europei, in particolare Georg Wilhelm Friedrich Hegel che esponeva un sistema in cui la mediazione fra gli opposti era un passaggio indispensabile. Inoltre la distinzione fra spirito e materia era da Hegel decisamente ridimensionata, se non addirittura rifiutata. Fatto estremamente gradito ai buddisti che, come visto in precedenza, ritenevano fuorviante porre distinzioni nella sfera dell’essere.<br />Fu proprio lo studio dei sistemi filosofici occidentali a spingere i filosofi giapponesi all’elaborazione di una logica che recuperasse la tradizione nipponica inserendola nel moderno contesto degli studi internazionali. L’esigenza era avvertita poiché si riteneva insufficiente la logica occidentale e incapace di spiegare il pensiero orientale.<br />Nishida Kitaro (1870-1945) introdusse il termine toyoteki ronri (logica orientale) per applicare una distinzione e sollevare la questione delle diverse tradizioni filosofiche. Egli propose una logica definita basho no ronri (logica del luogo) che comporta l’identità dei contrari (nozione orientale presente anche nel pensiero greco con Eraclito intorno al V scolo a.C.). Secondo Nishida l’uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (1). La determinazione lineare e la determinazione circolare, l’una tipica del pensiero occidentale e l’altra del pensiero orientale, sarebbero anch’esse due aspetti diversi della stessa realtà. E non sarebbero affatto in contraddizione come usualmente si crede. Elaborando il pensiero di Hegel, e arricchendolo dell’esperienza e della riflessione del buddhismo, Nishida perviene a una risoluzione di questa opposizione apparente (2). Analizzando la concezione del tempo e dello spazio si riconoscono i due modi di determinare: lineare e circolare. Il tempo è comunemente concepito come lineare, esso andrebbe dal passato al futuro. Ma se il passato è quello che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso (3). Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l’attimo presente. In conclusione, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Poiché la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Le determinazioni del tempo sarebbero possibili in due modi, l’uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l’altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude.<br /><br />"L’esterno è l’interno, l’interno è l’esterno, l’uno è il molteplice, il molteplice è l’uno".<br /><br />Così Nishida riporta la logica formale nell’ambito della sua fondazione, alle categorie di spazio e tempo che il processo di astrazione aveva completamente nascosto.<br />La logica del luogo costituisce un superamento della logica aristotelica, ma nello stesso percorso della filosofia occidentale intrapresa da Hegel. Se Immanuel Kant riteneva che la logica avesse raggiunto con Aristotele il suo compimento e non avesse potuto compiere nessuno miglioramento (4), non era così per Hegel e Nishida che raccolsero la sfida. Innanzitutto bisognava liberarsi di due ceppi: il principio di non-contraddizione e il principio d’identità.<br />Il principio d’identità afferma l’identità di una cosa con se stessa: a = a.<br />Il principio di non-contraddizione afferma che una cosa non può contemporaneamente essere e non essere: ~ ( a ^ ~ a ).<br />Questa liberazione fu possibile riportando la logica nel concreto, ossia nell’ontologia. In Oriente la logica non si era mai spostata dall’ambito pratico e concreto all’ambito astratto e speculativo perché il pensiero induista lo impediva (le forme del divino non erano mai trascendentali ma in maniera pagana materiali), il pensiero buddhista lo riteneva ingannevole (i pensatori buddhisti conoscevano bene la logica formale e la ritenevano un’astrazione a volte riduttiva a volte estremista), e il pensiero confuciano la riteneva utile non in se stessa ma soltanto per fini pratici.<br />Ma i filosofi giapponesi del Novecento avevano presente anche l’enorme potere costituito dalla scienza logico-matematica. L’idea logico-formale permetteva di controllare il mondo tramite misurazioni quantitative che riducevano la qualità del fenomeno a serie numeriche. L’esercizio del potere era esercitato tramite freddi calcoli che eliminavano ogni indecisione e riserbo. Il dominio dell’uomo sulla natura era totale e onnipotente. Una forza che avrebbe piegato anche le categorie della logica aristotelica. Può una città sparire in pochi secondi? L’essere può ridursi in nulla in un istante? All’incredulità degli Eleati rispose la storia il giorno 6 agosto 1945 ad Hiroshima.<br />La filosofia, sia occidentale sia orientale, non era stata in grado di contenere questo potere straordinario ed equilibrare le forze della tecnica e le volontà degli uomini.<br />Tanabe Hajime (1885-1962) si era occupato degli stessi problemi logici di Nishida, e aveva proposto una logica della specie (shu no ronri). Con specie o classe, si intende quel concetto capace di mediare l’universale e il particolare. La classe delle mele indica tutte le mele, la classe della frutta indica mele, pere, etc. Ma nel dopoguerra Tanabe pervenne a un ripensamento basato sui tragici eventi storici. Tanabe riconobbe di aver accentuato l’importanza dello stato nazionale, e che ciò proveniva dall’uso eccessivo del principio d’identità. In Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) segnalò i limiti della ragione rispetto all’esistenza e indicò il male come una assolutizzazione della prospettiva dell’individuo (5). Invece vedere e riconoscere le diversità sarebbe l’atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell’essere umano. Tanabe Hajime, spesso critico nei confronti di Nishida, ne riconobbe infine la capacità di relativizzazione di ogni prospettiva.<br />La logica, all’interno della filosofia, doveva preservare e custodire le differenze aprendo il pensiero alla pluralità del mondo, invece di chiuderlo negli schematismi che si impongono come dominio.<br />Takahashi Satomi (1886-1964) riprese l’idea di elaborare una logica unitaria che unificasse la tradizione orientale e la scienza occidentale. Perciò propose una "dialettica avvolgente" (hobenshoho) che si presentava come inclusione fondamentale di ogni dialettica. Secondo Takahashi Satomi la dialettica avvolgente era metalogica. Ma egli evita comunque di indicare il piano trascendentale come risolutivo, anzi tiene ancorato l’intelletto all’esperienza concreta (ovvero l’immanente).<br /><br />"La filosofia è un sistema intellettuale della totalità dell’esperienza che noi, di volta in volta, possiamo raggiungere."<br /><br />Tanabe Hajime riteneva invece che la filosofia non potesse limitarsi a riconoscere la contraddittorietà dell’esistenza, piuttosto dovesse elaborare una mediazione continua della logica con l’irrazionalità dell’esistenza. Perciò propose la dialettica della mediazione assoluta (zettai baikai no benshoho). Takahashi Satomi si oppose, anche apertamente, alle soluzioni proposte dai suoi colleghi.<br /><br />"Nishida e Tanabe cercano di portare dentro la logica ciò che è al di là della logica. Contrariamente a ciò, io tento di mantenere la filosofia come logica e pongo la religione in quanto al di là della logica come al di sopra o al di fuori della filosofia."<br /><br />Anche se le posizioni dei filosofi giapponesi del Novecento sono diverse, e ciò dovrebbe essere considerato una ricchezza piuttosto che una penalità, le caratteristiche della logica giapponese sono decisamente evidenti. I filosofi giapponesi cercarono di limitare il potere di astrazione della logica e cercarono di stabilire un equilibrio fra il pensiero formale e l’esperienza concreta. Questa concretezza della logica giapponese venne ben riassunta da Nishida Kitaro.<br /><br />"Ci sono probabilmente diverse opinioni sulla natura della verità, per me essa è quello che si avvicina maggiormente all’esperienza concreta. Di solito si afferma che la verità è universale. Ma se con ciò si vuol intendere che essa è un’astrazione, si batte una strada falsa. La verità assoluta è il dato concreto e immediato che sintetizza i vari aspetti. Esso è alla base di tutte le verità, e ciò che di solito viene chiamato verità ne è stato desunto per astrazione. La verità è considerata sintetica, ma questa sintesi non è una sintesi di concetti astratti. La vera sintesi si trova nel dato immediato." (6)<br /><br />Anche se può sembrare paradossale la logica giapponese si propone come una sintesi dell’astratto e del generale nel concreto particolare. Ma questa apparente contraddizione è soltanto la caratteristica naturale della realtà. Il pensiero, e quindi la logica formale, non è altro che una costruzione che parte dal concreto, e come tale fa parte del reale, e al reale deve essere riportata.<br /><br /><br />Note<br /><br />1. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1949, vol.1 p.86 e vol.7 p.204.<br />2. Il debito alla filosofia di Hegel è enorme e segnalato dalle citazioni dello stesso Nishida. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Iwanami shoten, Tokyo, 1951, p.4. Il buddhismo traspare negli scritti e rappresenta una delle scelte di vita fondamentali di Nishida.<br />3. Qui è esplicita la ripresa della posizione hegeliana, poi ripresa anche implicitamente da Heidegger. "Il tempo è l’essere che mentre è, non è, e mentre non è, è ".Cfr. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Sez.1 Par.258, Laterza, Roma, 1987, p.233.<br />4. Cfr. Kant, Immanuel, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, Laterza, Bari, 1966, pp.15-16.<br />5. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1946.<br />6. Nishida, Kitaro, Zen no kenkyu, Iwanami shoten, Tokyo, 1993, p.46.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami shoten, Tokyo, 1946.<br />Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.<br />Nakae, Chomin, Nakae Chomin shu, Chikuma shobo, Tokyo, 1967.<br />Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1966.<br />Piovesana, Gino Kiril, Filosofia giapponese contemporanea, Patron, Bologna, 1968.<br />Takahashi, Satomi, Hobenshoho, Risosha, Tokyo, 1947.<br />Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma shobo, Tokyo, 1976.<br />Zolla, Elémire, La nube del telaio. Ragione e irrazionalità fra Oriente e Occidente, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.<br />Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1963.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-61782078156078567082010-11-18T01:10:00.000-08:002010-11-18T01:12:19.499-08:00Shiso, il pensiero giapponeseArticolo sul pensiero giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.<br /><br />Shiso, il pensiero giapponese<br />La filosofia oltre lo scontro di civiltà<br />di Cristiano Martorella<br /><br />22 settembre 2002. Affermare che la filosofia giapponese abbia un carattere universale e internazionale può sembrare provocatorio. Ma cosa può svegliare dal torpore dell’intelletto che sembra essersi rassegnato alla banalità del male? La resa incondizionata all’idea dello scontro di civiltà (clash of civilizations) è condivisa da molti, però non da tutti (1). Così la provocazione può dimostrarsi un’autentica rivelazione.<br />In giapponese si indica con shiso il pensiero, in particolare il pensiero filosofico o concettuale. Il termine è composto da due kanji: il primo (shi) è lo stesso del verbo omou (pensare), il secondo (so) è anch’esso letto omou ed è sinonimo di pensiero, idea. Dunque shiso è il pensiero speculativo o filosofico, mentre il pensiero comune o un pensiero qualunque è indicato dalla parola kangae. Questa distinzione introdotta nella lingua giapponese è stata necessaria a causa della differente concezione del pensiero nell’antica cultura giapponese. Questo diverso contesto linguistico e concettuale implica un’opposizione assente in altre lingue come l’inglese o l’italiano. Il verbo omou, infatti, indica il pensare (to think), ma anche il sentire (to feel), il credere (to believe), lo sperare (to hope) e il volere (to want). L’aspetto puramente concettuale del pensiero doveva essere indicato con un altro termine coniato appositamente, appunto shiso. Ciò ci mette in guardia e ci anticipa la considerazione dei saggi giapponesi nei confronti del pensiero, una stima molto influenzata dal buddhismo e fortemente critica.<br />Il Buddha Shakyamuni insiste sull’importanza di mantenere il controllo sul pensiero che essendo illusorio per sua natura è potenzialmente nocivo. Questo insegnamento è esposto anche nel Dhammapada (in sanscrito Dharma-pada, Versetti della Legge).<br /><br />"Si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero domato è portatore di felicità. Custodisca l’uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero ben guardato porta felicità. Coloro che controllano il pensiero, che viaggia lontano, che cammina solo, incorporeo, che alloggia nel cuore, costoro si liberano dei vincoli del male." (Dhammapada, III, 35-37)<br /><br />Ma il buddhismo non si limita ad affermare la fallacia del pensiero che necessita quindi di continuo controllo (altrimenti si getterebbe "su ciò che gli piace"). Il buddhismo Mahayana stabilisce che la realtà stessa è pensiero. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il Buddha (Vajracchedika, 5). Le pretese del pensiero speculativo vengono addirittura ridicolizzate. Buddha paragona il filosofo a un ferito che, anziché farsi medicare, vuole sapere chi l’ha colpito, di quale materiale è composta la freccia, e così via. Quest’uomo si perde in questioni irrilevanti, trascurando l’essenziale (Majjhima nikaya, 63).<br />Il succo dell’insegnamento buddhista è il dharma (legge) che può essere riassunto come il riconoscimento della natura del reale:<br /><br />1) Impermanenza del pensiero<br />2) Impermanenza dei fenomeni della realtà<br />3) Interconnessione e relazione dei fenomeni<br /><br />Nel suo atteggiamento radicalmente antispeculativo, il buddhismo proclama il carattere "vuoto" del dharma. La dottrina del Buddha non è una teoria, ma un esercizio per liberare l’uomo. Come tale essa è vuota (sunya). Buddha Shakyamuni affrontò la questione con una parabola. Egli paragonò la dottrina buddhista a una zattera, utile per arrivare da qualche parte, ma va poi accantonata una volta raggiunto lo scopo o la terraferma (Majjhima nikaya, 22). Il valore dei princìpi buddhisti è puramente strumentale. Attinta l’illuminazione, essi si rivelano superflui, per non dire paralizzanti. La zattera di Buddha è come la scala del filosofo Ludwig Wittgenstein.<br /><br />"Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse – oltre esse. Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito. Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo." (Tractatus Logico-Philosophicus, 6.54)<br /><br />Se Buddha Shakyamuni aveva contestato la realtà assoluta del pensiero, fino a capovolgere la questione e sostenere che la realtà stessa sarebbe soltanto pensiero, il buddhismo zen giapponese ha amplificato questa riflessione rigettando ogni dottrina speculativa e preferendo i metodi pratici. Lo zen insiste sul riconoscimento dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo) e sull’unica realtà che costituisce l’universo ossia il nulla (mu). Questa posizione vanifica ogni tentativo di afferrare con il pensiero qualcosa che si rivela inafferrabile semplicemente perché vuoto. Ma costituisce anche l’abbattimento della barriera che ci separa dal mondo e dagli altri esseri viventi.<br /><br />"Nella mia tradizione, ogni volta in cui giungo le mani per inchinarmi profondamente davanti a Buddha recito questa breve strofa: Colui che si inchina e porta rispetto, e colui che riceve l’inchino e il rispetto, sono entrambi vuoti. Per questa ragione la comunione è perfetta." (2)<br /><br />La filosofia giapponese rompe con la tradizione speculativa che considera il pensiero come un oggetto reale e si ricongiunge con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale. Non bisogna supporre che l’atteggiamento della filosofia giapponese nei confronti del pensiero sia isolato, poiché esistono delle fortunate eccezioni. Questo è il caso di Ludwig Wittgenstein che giunse a sostenere perfino che il significato di una parola è il suo uso (ammettendo dunque il carattere vuoto del pensiero).<br /><br />"I filosofi, che credono che pensando si possa, per così dire, estendere l’esperienza, dovrebbero riflettere che per telefono si può trasmettere un discorso, ma non il morbillo. […] Nei miei pensieri, con le parole, non posso certo carpire una previsione di qualcosa che non conosco (Nihil est in intellectu). Come se potessi arrivare al pensiero, per dir così, dal di dietro, e furtivamente gettare uno sguardo su ciò, che dal davanti mi è impossibile scorgere. Perciò c’è qualcosa di vero nel dire che l’inimmaginibilità è un criterio dell’insensatezza." (3)<br /><br />Wittgenstein abbandona la concezione del pensiero come di qualcosa superiore alle percezioni e dunque perfetto. Al contrario, il pensiero non ha una natura propria piuttosto è l’apparenza di un comportamento umano (questa dottrina è chiamata "comportamentismo logico" ed è attribuita anche al filosofo Gilbert Ryle) (4). Una formula va intesa come una prassi determinata dall’uso.<br /><br />"Si può dire: "Il modo in cui la formula viene intesa determina quali passaggi si debbano compiere". Qual è il criterio per stabilire in che modo viene intesa la formula? Forse il modo e la maniera in cui la usiamo costantemente, il modo in cui ci è stato insegnato ad usarla." (5)<br />Ciò si estende all’intero linguaggio (e dunque al pensiero). Il significato di una parola è il suo uso.<br />"Ma allora il significato di una parola che comprendo non può convenire al senso della proposizione che comprendo? O il significato di una parola convenire al significato di un’altra? Certo, se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di un tale convenire." (6)<br /><br />Qual è però il rapporto fra questa filosofia nippo-europea e lo scontro di civiltà evocato all’inizio? Paradossalmente è estremamente semplice. Nell’Ottuplice Sentiero (astanga-marga) esposto da Buddha, si succedevano la retta conoscenza, il retto pensiero, la retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. Se ci liberiamo dai ceppi del pensiero, il cambiamento immediato si ripercuoterà nella nostra vita. Per quanto riguarda lo scontro di civiltà, è sufficiente smettere di pensare l’esistenza e la legittimità della guerra santa. Finché crederemo alla logica della guerra non avremo alternative, poiché lo scontro esisterà fino al giorno in cui lo penseremo. La guerra non è una realtà immutabile, ma la proiezione mentale delle paure umane. Combattiamo perché pensiamo che sia inevitabile. Se gli uomini continueranno a concepire le relazioni sociali soltanto in termini di scontro, ebbene non vi sono altre possibilità. L’errore è nell’attaccamento a questo pensiero.<br />Così Shibayama Zenkei auspica il successo della filosofia giapponese per il benessere e la pace dell’umanità.<br /><br />"Oggi il mondo intero, in Oriente e in Occidente, sembra attraversare un periodo di convulsa trasformazione, un’epoca di travaglio in cui cerca di dar vita a una nuova cultura. Le tensioni che colpiscono tante parti del nostro pianeta non possono certo avere un’unica causa, ma una delle principali è certamente il fatto che, mentre sono stati compiuti notevoli progressi nell’uso della moderna conoscenza scientifica, noi esseri umani non ci siamo sviluppati abbastanza sul piano spirituale ed etico per vivere in queste nuove condizioni. È quindi assolutamente necessario dar vita a una nuova civiltà, attraverso una più profonda comprensione dell’essere umano e un più alto livello di spiritualità. […] Lo zen rappresenta una cultura spirituale unica in Oriente; possiede una lunga storia e antiche tradizioni e io credo che abbia fondamentali valori universali in grado di contribuire a creare una nuova civiltà spirituale." (7)<br /><br />Non ci sono molte alternative. Se non si perverrà, come auspicato da Shibayama, alla costituzione di una filosofia che unisca Oriente e Occidente, non vi sarà più una filosofia. E non ci sarà filosofia perché non ci sarà umanità. La filosofia nippo-europea costituisce il primo tentativo di questa filosofia del futuro.<br /><br />Note<br /><br />1. Fu Huntington a coniare l’espressione "scontro di civiltà". Cfr. Huntington, Samuel, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. it. Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997). La sua tesi fu criticata duramente da Fukuyama. Cfr. Fukuyama, Francis, The Great Disruption, Free Press, New York, 1999 (trad. it. La Grande Distruzione, Baldini & Castoldi, Milano).<br />2. Thich Nhat Hanh, The Heart of Understanding: Commentaries on the Prajna-paramita Heart Sutra, Parallax Press, Berkeley, 1988.<br />3. Wittgenstein, Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino, 1986, p.58-59.<br />4. Cfr. Ryle, Gilbert, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.<br />5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p.103.<br />6. Ibidem, p.74.<br />7. Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999, p.9.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Arena, Leonardo Vittorio, Buddha, Newton Compton, Roma, 1996..<br />Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch’an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.<br />Bareau, André, Vivere il buddismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1990.<br />Boisselier, Jean, La sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris, 1993.<br />Filippani Ronconi, Pio, Il buddhismo, Newton Compton, Roma, 1994.<br />Filippani Ronconi, Pio (a cura di), Buddha. Aforismi e discorsi, Newton Compton, Roma, 1994.<br />Filippani Ronconi, Pio, Canone buddhista, UTET, Torino, 1976.<br />Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, 1999.<br />Puech, Henri-Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.<br />Puech, Henri-Charles, Le religioni dell’Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari, 1988.<br />Ryle, Gilbert, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.<br />Smith, Jean, 365 zen l’arte dell’Oriente nelle parole dei più grandi maestri, Sonzogno, Milano, 2000.<br />Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-Philosophicus, Einaudi, Torino, 1989.<br />Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995.<br />Wittgenstein, Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino, 1986.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-90201088990889992512010-11-18T01:08:00.000-08:002010-11-18T01:10:00.277-08:00Tetsugaku, la filosofia giapponeseArticolo sulla filosofia giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Tetsugaku.<br /><br />Tetsugaku, la filosofia giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />11 febbraio 2002. Quando gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. I sapienti dell’arcipelago nipponico avevano curato la loro formazione intellettuale con lo studio del sanscrito e del cinese, e l’approfondimento dei classici confuciani e buddhisti. E i risultati non erano mancati. Il monaco buddhista Kukai (774-835), conosciuto con il titolo di Kobo Daishi, inventò i kana tuttora utilizzati nel giapponese moderno. Egli li ottenne attraverso lo studio della scrittura sanscrita (devanagari) e una semplificazione dei kanji di origine cinese. Il sistema sillabico dei caratteri (kana) fu una conquista intellettuale notevole e permise uno sviluppo della scrittura. I kana, a differenza dei kanji, avevano un valore esclusivamente fonetico e permettevano anche la trascrizione di suoni (giseigo) e parole straniere (gairaigo), svolgendo tante funzioni linguistiche altrimenti impossibili.<br />Dunque l’arrivo della filosofia e scienza europea alla metà del XVI secolo trovò un ambiente intellettualmente florido. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale.<br />I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone (1). A differenza di altre nazioni europee (si pensi alla Spagna), l’Olanda non aveva mire espansionistiche feroci, ma applicava una politica che favoriva gli scambi commerciali e culturali. L’Olanda era anche divenuta il rifugio degli intellettuali nel XVII secolo grazie alle garanzie civili, alla tolleranza religiosa e alla libertà di pensiero consentita. Ciò spiega i rapporti privilegiati fra Olanda e Giappone, altrimenti impossibili (2).<br />Intanto si compilavano numerosi testi sulla sapienza dell’Occidente. Arai Hakuseki (1657-1725), per ordine dello shogun Ietsugu, interrogò il missionario italiano Giovanni Battista Sidotti e ne ricavò un libro intitolato Seiyo kibun (Rapporto sull’Occidente). Il testo raccoglie e tratta la storia europea, la geografia, la filosofia e religione. Arai Hakuseki riconosce la superiorità della scienza occidentale nei settori pratici (geografia, astronomia, chimica, etc.), ma rimane scettico ed esprime disprezzo nei confronti del cristianesimo ritenuto contraddittorio e superficiale.<br />Yamagata Banto (1748-1821) scrisse Yume no shiro (Al posto dei sogni) in cui affermava la sua concezione materialista del mondo a favore della scienza e contro le superstizioni.<br /><br />"Gli occidentali osservano e fanno rilevamenti durante i loro viaggi tra un paese e l’altro. […] Non esistono teorie fallaci come quelle indiane, cinesi e del nostro paese. Bisogna credere alle loro teorie. […] I cinesi con disattenzione fanno affermazioni piene di errori, senza prima controllarle. E indiani e giapponesi le acquisiscono così come sono." (Yamagata Banto, Yume no shiro 1,25 e 12, 23)<br /><br />Yamagata Banto espone anche importanti acquisizioni scientifiche dell’epoca: la teoria eliocentrica, la forma sferica e la rotazione della Terra, il movimento di marea, la teoria gravitazionale di Newton, la dinamica e l’elettrologia.<br />Nel 1774 Motoki Yoshinaga (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Shizuki Tadao (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese.<br />Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Fra gli studiosi di rangaku spiccarono Aoki Kon’yo, Arai Hakuseki, Asada Goryu, Hiraga Gennai, Maeno Ryotaku, Shiba Kokan, Shizuka Tadao, Sugita Genpaku, Takano Choei, Watanabe Kazan e Yamawaki Toyo.<br />Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale.<br />L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Takano Choei (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897) (3).<br />Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Al contrario di quanto affermato dagli studiosi italiani come Grazia Marchianò, Gino Piovesana e Carlo Saviani, il termine tetsugaku non è affatto la traduzione letterale di "amore del sapere"(4). Non vi è infatti presenza della parola amore nei kanji di tetsugaku. I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase "dori ni akaruku" (diventare chiaro tramite la ragione). A differenza degli insegnamenti confuciani (basati sul rispetto delle regole tramandate dagli avi) e della dottrina buddhista (antiteoretica e contemplativa), la filosofia nippo-europea (tetsugaku) utilizzava un metodo speculativo. L’applicazione del metodo speculativo (o dialettico) inventato dai greci verso il V secolo a.C., nell’ambito delle conoscenze già acquisite dalla filosofia orientale, diede vita a sistemi filosofici originalissimi compatibili con la scienza occidentale (5).<br />La filosofia nippo-europea tuttavia è ampiamente ignorata ancora oggi. Anche perché si rivela concorrenziale e alternativa alle dottrine epistemologiche d’origine americana attualmente dominanti. Ciò significa un ritardo storico nei confronti di un pensiero transnazionale che dovrebbe evitare le contrapposizioni fra "orientale" e "occidentale". Una perdita intellettuale che è anche una delle cause del clash of civilizations (scontro di civiltà) della nostra epoca.<br /><br />Note<br /><br />1. Per la rangaku e l’incontro del Giappone con la scienza occidentale si consulti il completo ed equilibrato testo di Andrea Tenneriello. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.<br />2. Cfr. Keene, Donald, The Japanese Discovery of Europe 1720-1830. Stanford University Press, Stanford, 1969.<br />3. Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.<br />4. Cfr. Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova, 1998, p.23.<br />5. Si consideri, ad esempio, il successo della fenomenologia husserliana in Giappone. Cfr. Ogawa, Tadashi, The Kyoto School of Philosophy and Phenomenology, in Analecta Husserliana, vol.8, 1979, pp.207-221.<br /><br />Bibliografia<br /><br />Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell’antichità, Graphos, Genova, 1991.<br />Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L’incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.<br />Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Rubbettino, Soveria Mannelli,1996.<br />Miki, Kiyoshi, Tetsugaku nyumon, Iwanami, Tokyo,1940.<br />Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.<br />Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.<br />Piovesana, Gino, Filosofia giapponese contemporanea, Pàtron, Bologna, 1968.<br />Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma, Tokyo, 1976.<br />Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1963.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-69783705484204691592010-11-18T01:04:00.000-08:002010-11-18T01:07:18.284-08:00Wittgenstein e il buddhismoArticolo sulla filosofia di Wittgenstein e il buddhismo pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".<br />Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.<br /><br />Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein<br />di Cristiano Martorella<br /><br />Wittgenstein e il pensiero orientale<br /><br />Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del Buddhismo Zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità. Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava completamente le opere e gli autori orientali. Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d’ingegneria di Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale. Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano impegnato i saggi d’India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio. Buddha aveva indicato agli orientali l’origine della sofferenza. Un cattivo o eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi problemi. Egli era fortemente insoddisfatto dell’incapacità della filosofia occidentale nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli affermava: "(...) il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi" (1).<br /><br />Filosofia del linguaggio<br /><br />Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi, dunque la sua indagine si sposta sull’analisi di questi pseudo-problemi. Lo scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare gli pseudo-problemi.<br />Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell’ambiguità e fallacia del linguaggio l’origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre. Secondo Nagarjuna, così come insegna il Buddhismo, ogni cosa è in relazione con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della parola affermando che il senso è l'uso.<br /><br />Filosofia come terapia<br /><br />Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo sul linguaggio. La filosofia deve fornire una "grammatica" perspicua del linguaggio (2). Essa non è una dottrina ma una attività.<br />La forma più nobile del Buddhismo, scevra di superstizioni e credenze metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il Buddhismo, in particolare lo Zen, necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto l’atto di fede (3). Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un impegno che implica la totale partecipazione dell’individuo a caratterizzare tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti koan, il Buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli errori che controllano la sua mente.<br /><br />Koan di Wittgenstein<br /><br />Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono interrogati attraverso l’uso di un koan. Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.<br /><br />"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)<br />"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)<br />"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)<br />"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)<br />"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)<br />"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)<br /><br />Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente.<br /><br />La prospettiva dei filosofi giapponesi<br /><br />Affermare l’esistenza di una affinità fra lo Zen e la filosofia di Wittgenstein sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse. Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello Zen. La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume Daisaburo (4). Nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del Buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l’ostracismo della cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici.<br />Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del Buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del Buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore (5). Wittgenstein aveva visto in frasi come "io provo dolore" ed "egli prova dolore", una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale ("Io provo dolore") è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo ("Egli prova dolore"). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal punto di vista grammaticale.<br />Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà.<br />Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di "seguire una regola" (6). Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. L’elemento concettuale, la spiegazione e la teoria, è del tutto assente.<br />Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime (7). Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello Zen, ma anche a ciò che Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano l’espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l’interruzione dell’uso della logica vero-funzionale e della dialettica discorsiva.<br />Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare certi aspetti del Buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo Hashizume, si può trovare il principio di "seguire una regola" nella condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la "regola". Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per l’appunto "seguendo la regola". Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva tali aspetti: "Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa" (8). Per il Buddhismo, l’esempio supremo è il Buddha.<br />Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere "il seguire una regola" con "l’interpretare una regola". Una minaccia che colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che Wittgenstein avversava con la sua nozione di "significato come uso". Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John Austin (9), e permise di far tornare concreto il linguaggio.<br /><br />Conclusioni<br /><br />Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo modo di vedere, il pensiero non sarebbe un’immagine mentale del mondo, qualcosa di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario. Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in relazione con il mondo. L’errore umano è confondere il pensiero con il mondo. L’errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra cosa.<br /><br /><br />Note<br /><br />1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989 ("Nuova Universale Einaudi"/196), p. 5.<br />2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Filosofia, Donzelli, Roma, 1996, p. 27.<br />3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene la vita completamente libera (...)". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996, p. 69.<br />4. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo 1985.<br />5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, pp.119-138.<br />6. Ibidem, pp.108-116.<br />7. Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 210-217.<br />8. Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, p. 26.<br />9. Austin, John, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Wittgenstein, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.<br />Andronico, Marilena, Marconi, Diego, Penco, Carlo, Capire Wittgenstein, Marietti, Genova, 1988.<br />Canfield, John, The Philosophy of Wittgenstein, Vol.15, "Elective affinities, Wittgenstein and Zen", Garland Publishing, Inc., 1986, pp.383-408.<br />Gargani, Aldo, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Bari, 1973.<br />Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del Corso di Filosofia del Linguaggio, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999.<br />McGuinness, Brian, Wittgenstein:A Life, Duckworth, London, 1988.<br />Kenny, Anthony, Wittgenstein, Allen Lane The Penguin Press, London, 1973.<br />Perissinotto, Luigi, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano, 1997.<br />Wienpahl, Paul, Zen and Work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol.12, n.2, 1958, pp.67-72.<br />Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989.<br />Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.<br />Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.<br />Wittgenstein, Ludwig, Zettel, Einaudi, Torino, 1986.<br />Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.<br />Wittgenstein, Ludwig, Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983.<br />Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino, 1976.<br />Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino, 1982.<br />Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1971.<br />Wittgenstein, Ludwig, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-63744563314536208002010-09-08T02:33:00.000-07:002010-09-08T02:34:46.623-07:00La creazione e il buddhismoIntervento sul tema della creazione e il buddhismo pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX".<br />Cfr. Cristiano Martorella, La creazione e l'ignoranza, in "Il Secolo XIX", mercoledì 8 settembre 2010, p.41. <br /><br />La creazione e l'ignoranza<br />Le lettere pubblicate da "Il Secolo XIX" circa la questione della creazione dell'universo tendono a essere troppo sbrigative e sbilanciate a favore di un'unica visione ossia la credenza della necessità di una divinità creatrice. Oltre a non spiegare niente circa la natura di questa entità creatrice, si cade nel paradosso e nella giustificazione dell'ignoranza, ossia si afferma che conoscere Dio non è possibile. Inoltre queste teorie peccano di etnocentrismo affermando che tutti i popoli credono in una divinità creatrice. Ciò è assolutamente falso. Milioni di buddhisti credono che l'universo non sia stato mai creato e mai finirà, ma sia qualcosa eternamente in trasformazione. Buddha stesso viene spesso identificato con l'universo, e nessun buddhista sostiene che c'è una divinità che lo crea. Così Hakuseki Arai, quando incontrò il missionario Giovanni Battista Sidotti, confutò la credenza in Dio. Egli osservò che se Dio ha creato l'universo, allora chi ha creato Dio? E se Dio è eterno e non è stato creato, perché non si può dire altrettanto dell'universo? La confutazione è ancora oggi validissima.<br />Cristiano Martorellayamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-66683487833630525662010-07-01T09:43:00.000-07:002010-07-30T05:50:35.734-07:00La violenza del buddhismoLa violenza del buddhismo dalla storia alla dottrina<br />di Cristiano Martorella<br /><br />1 luglio 2010. La diceria che descrive il buddhismo come una religione pacifica e dedita alla meditazione è tanto crudele quanto falsa. Purtroppo la storia del buddhismo ci descrive l'esatto opposto, e in Giappone troviamo gli esempi più eclatanti della trasgressione del principio di non-violenza di quei maestri buddhisti tanto venerati.<br />Chi non crede ai testi degli storici, giudicati frettolosamente come discutibili e quindi ignorati, può essere facilmente costretto alla resa ricorrendo alla semantica della lingua. Infatti i dizionari della lingua giapponese contengono una parola che emette una sentenza definitiva, chiara e irrevocabile. Questa parola è sohei. La parola sohei è composta da due kanji (caratteri cinesi) che significano monaco buddhista (so) e soldato (hei). I sohei erano monaci guerrieri armati che combattevano per gli interessi del proprio monastero o setta religiosa. Al contrario di quanto si possa pensare, i sohei non avevano soltanto funzione difensiva, ma partecipavano attivamente alle guerre. L'influenza politica dei monaci era così forte che il condottiero Nobunaga Oda decise di sterminarli affinché non ostacolassero la sua ascesa al potere. Il 29 settembre 1571, il tempio Enryakuji, principale monastero della setta Tendai, fu distrutto. I monaci e la popolazione civile furono uccisi senza pietà. Nel 1573 lo shogun Yoshiaki Ashikaga si alleò con i monaci guerrieri che combatterono contro il suo rivale. I monaci guerrieri ebbero sempre una parte importante nella storia militare del Giappone, fino a quando fu imposta la non belligeranza all'intero paese unificato e pacificato dallo shogunato Tokugawa (1603-1867).<br />Ciò che più preoccupa del fenomeno del buddhismo militante guerriero, è la disinvoltura con cui i maestri buddhisti alimentarono il fanatismo e l'istigazione alla violenza. Un esempio particolare è fornito dal rapporto fra il samurai Shijo Kingo e il monaco Nichiren. Conoscendo bene il carattere fiero e battagliero di Shijo Kingo, Nichiren ne sfruttò la psicologia a servizio della sua causa: la creazione di una setta buddhista che avrebbe dovuto avere l'egemonia in Giappone, eppoi nell'intero mondo. Invece di indurlo ad abbandonare le armi e cambiare stile di vita, Nichiren lo incoraggiò sempre nelle sue battaglie arrivando addirittura a dire che era preferibile "vivere un solo giorno con onore piuttosto che morire a centoventi anni in disgrazia". Un chiaro invito a morire per la sua causa. <br />Shijo Kingo sopravvisse, ma tanti altri seguaci di Nichiren morirono combattendo per lui, e le testimonianze sono fornite dalle lettere disperate delle vedove inviate al monaco con la richiesta di un aiuto. L'idea che Shijo Kingo fosse un violento irascibile non è una malevole critica dei suoi detrattori, ma un fatto storico riconosciuto anche dai suoi ammiratori (1). <br />Gli episodi di violenze e aggressioni fra le sette buddhiste rivali furono tanto diffusi che le autorità decisero di prendere seri provvedimenti. Nel 1279 vi fu una repressione dei seguaci di Nichiren, un evento noto come Atsuhara honan (crisi di Atsuhara). In quella occasione furono arrestate ben 20 persone, e 3 furono condannate a morte e giustiziate. <br />Dunque sono innegabili le violenze compiute in nome del buddhismo. La questione non è più chiedersi quante furono le vittime, aspetto storicamente inconfutabile, ma perché ciò avvenne. La risposta è semplice. La dottrina di Nichiren rifiutava gli insegnamenti provvisori (shakumon) di Buddha, ritenuti meno importanti e degni di rispetto dell'insegnamento fondamentale (honmon). Purtroppo fra gli insegnamenti provvisori (shakumon) vi è anche il principio di non-violenza. Nichiren, al contrario, fondava la sua religione unicamente nella fede nel daimoku. Il daimoku è un mantra, una formula recitata ripetutamente composta dal titolo del Sutra del Loto e preceduta dalla parola namu che significa lode, onore (dal sanscrito namas). Daimoku, infatti, significa letteralmente titolo, e indica il titolo del Sutra del Loto, in giapponese Myoho renge kyo. L'invenzione della recitazione del daimoku non è opera originale di Nichiren, ma era già stata formulata da Kukai (2) della setta Shingon.<br />Nichiren aveva studiato in gioventù, quando era conosciuto col nome di Zeshobo Rencho (3), presso la scuola Shingon, e conosceva quindi molto bene le pratiche esoteriche. Anche se nei suoi scritti troviamo ferme critiche al buddhismo esoterico, e soprattutto invettive che ridicolizzavano le magie delle sette Shingon e Kegon (4), Nichiren non ebbe ritegno e scrupolo a farne comunque uso. Arrivò addirittura a sostenere il sesso tantrico affermando che recitando il daimoku durante l'amplesso sessuale si sarebbe raggiunta immediatamente l'illuminazione (5). La dottrina di Nichiren si distaccò gradualmente da ogni tipo di insegnamento buddhista, eliminando ogni questione di carattere dottrinale, e basandosi unicamente sulla fede e i benefici ottenuti dalla pratica religiosa. Il daimoku così divenne una pedissequa imitazione del nenbutsu, il mantra recitato dagli avversari della setta Jodo. <br />In realtà queste forme del buddhismo giapponese, che si combattevano molto ferocemente fra di loro, erano in effetti simili. Nichiren, Honen e Shinran predicavano gli stessi principi: uso esasperato del mantra, abbandono fideistico, esclusivismo settario. La setta Jodo, ad esempio, ha sempre sostenuto che i peggiori peccatori avrebbero avuto accesso alla Terra Pura semplicemente recitando il nenbutsu. Ciò è stato spesso interpretato come un'indipendenza della condotta della persona dalla grazia (tariki) del Buddha Amida. Secondo Shinran, il peccatore può essere salvato soltanto tramite la fede che è un dono di Amida. Più un uomo è sprovveduto spiritualmente, più ha la possibilità di essere salvato poiché essendo incapace del minimo sforzo personale, oppone anche meno resistenza alla forza salvatrice di Amida. Questo è il senso del paradosso di Shinran che diceva: "Anche i buoni andranno in paradiso, tanto più i cattivi!"<br />Il problema fondamentale del buddhismo giapponese in queste forme e accezioni, è di avere una spiccata tendenza alla amoralità. Un tratto caratteristico della religione autoctona giapponese, lo shintoismo, è di essere una religione dell'estetica, quasi estranea e disinteressata alla moralità. Spesso il bene si identifica con il piacere e la bellezza. Così avviene anche per il buddhismo giapponese quando concentra la pratica sull'ottenimento di benefici materiali. Infatti il buddhismo giapponese si mischiò e fuse in maniera irreversibile con le credenze shintoiste, tanto da rimanerne influenzato. Questo sincretismo è detto shinbutsu konko, oppure shinbutsu shugo, ma viene anche indicato col nome di ryobu shinto. <br />Pensatori come Nichiren, Honen e Shinran non si accorsero nemmeno di essere determinati dalle tendenze culturali della loro epoca, anzi dissero al contrario di distaccarsene e di essere originali. Tutto ciò non sarebbe un pericolo, anzi avrebbe aspetti interessanti e singolari se non fosse viziato da un abbandono fideistico che corrisponde all'eliminazione di ogni voce critica. L'idea di eliminare il dualismo bene-male (zen aku funi) e di contestare la rigidità dottrinale, costituisce uno sviluppo fervido e fecondo della filosofia giapponese ereditato appunto dal buddhismo e dallo shintoismo. Ma ignorare gli effetti devastanti che il fanatismo religioso può avere, come si è visto fin qui, rappresenta il pericolo più grave per la società, sia essa occidentale oppure orientale.<br />Chi crede nel buddhismo deve anche fermamente rifiutare l'obbedienza cieca a una fede che invece di illuminazione e saggezza produce ottusità e chiusura. Quando si chiede di "sostituire la fede alla saggezza" si sostiene implicitamente di rinunciare all'illuminazione e alla buddhità, ciò che un buddhista autentico non potrà mai accettare. <br /> <br />Note<br /><br />1. Daisaku Ikeda parla di "tendenza alla collera". Cfr. Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005, p.188. <br />2. Cfr. Sutra del Loto, traduzione di Luciana Meazza, introduzione di Francesco Sferra, Rizzoli, Milano, 2006, p.22.<br />3. Nichiren, il cui vero nome alla nascita era Zennichimaro, fu avviato alla vita religiosa in giovane età, e nel 1237 fu ordinato monaco al Kiyosumidera col nome di Zeshobo Rencho. Si recò quindi all'Enryakuji per approfondire lo studio del pensiero Tendai, e poi a Koya, dove studiò le teorie Shingon. <br />4. La setta Shingon, fondata dal monaco Kukai, si ispira al buddhismo Vajrayana ed è di indirizzo tantrico, facendo ampio uso di mandala e mantra, e in particolare di rituali magici. La setta Kegon, detta scuola dell'ornamento floreale, è una scuola mahayanica che si fonda sull'insegnamento del sutra Avatamsaka. Il tema centrale della setta Kegon è l'unità e l'interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi. <br />5. Il gosho in cui si trova questa affermazione è intitolato I desideri terreni sono illuminazione. Cfr. Nichiren Daishonin, Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol.4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, p.145. <br /> <br />Bibliografia<br /> <br />Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002. <br />Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.<br />Filoramo, Giovanni (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.<br />Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.<br />Henshall, Kenneth, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.<br />Komatsu, Hosho, Nichiren Shonin zenshu, Shunjusha, Tokyo, 1998. <br />Moore, George Foot, Storia delle religioni, Laterza, Bari, 1963. <br />Sansom, George Bailey, Japan. A Short Cultural History, Stanford University Press, Stanford, 1978.<br />Sansom, George Bailey, A History of Japan to 1334, Stanford University Press, Stanford, 1958. <br />Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-64651749544219430742010-06-17T10:04:00.000-07:002010-06-17T10:05:09.268-07:00Radici del pensiero giapponeseEstratto del cap. 2 della tesi di laurea di Cristiano Martorella. <br /><br />Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000. <br /> <br />Capitolo 2. Le radici del pensiero giapponese<br /><br />2.1 L’approccio antropologico alle religioni orientali <br />2.2 Estetica come morale <br />2.3 Identità di immaginario e reale <br />2.4 Shintoismo e unità nazionale <br />2.5 L’innesto del confucianesimo <br />2.6 Il contributo filosofico del buddhismo <br />2.7 Implicazioni economiche per l’influenza delle credenze <br />religiose <br />2.8 Rivisitazione del concetto weberiano di “disincanto del <br />mondo” <br /><br /><br /><br />Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico<br /><br />Capitolo 2. Le radici del pensiero giapponese <br /><br /><br />2.1 L'approccio antropologico alle religioni orientali <br /><br />Seguendo l'esempio dell'opera di Weber (1), incominceremo l'analisi della razionalità giapponese dallo studio delle credenze religiose e dell'influenza delle dottrine sul pensiero comune. A tal proposito dobbiamo subito mettere in luce una delicata questione. Noi crediamo che sia profondamente sbagliato impegolarsi nella trattazione minuziosa e capziosa delle dottrine religiose senza che si spieghi la loro funzione ultima, ossia l'influenza sul comportamento individuale e sull'organizzazione sociale.<br />L'accusa è rivolta ad alcuni orientalisti che in questi anni hanno proliferato grazie a una moda prevalente nella società occidentale, sulla scia di un interesse dilettantistico delle religioni orientali. Molti di questi studiosi hanno nascosto gli errori metodologici e le carenze delle loro ricerche dietro la scusante di un supposto "mistero dell'Oriente". O peggio, nella citazione pedissequa di nomi senza alcun contatto con un pensiero coerente o una teoria esplicativa.<br />Nessuno dovrebbe accettare questo modo di procedere. Quando non si è capaci di spiegare qualcosa, ciò è indice che non si conosce a fondo l'argomento trattato (2). Il lavoro dell'intellettuale deve essere di chiarire il pensiero. E quando si accorge che non è riuscito a renderlo comprensibile deve ricominciare da capo, instancabilmente (3). Il fatto che ci occupiamo di cultura orientale non significa disporre di una particolare immunità. Riconoscere la diversa razionalità del pensiero orientale non implica una resa incondizionata della comprensione. Riuscire a spiegare la razionalità giapponese è un sforzo immane, ma non si può sfuggire in eterno a questo che è un compito dell'intellettuale (4).<br />Dunque non accettiamo misteri di alcun genere, altrimenti non saremmo più nell'ambito della scienza, e noi invece aspiriamo a restarvi. Infine ricordiamo che l'idea prevalente dell'Oriente è soprattutto un'immagine falsa che ci siamo creati noi occidentali. <br />Un'altra osservazione riguarda il tipo di indagine esclusivamente basata sullo studio critico di testi, senza alcuna verifica sul campo. Invece l'approccio più utile allo studio della religione è quello di tipo antropologico. Crediamo che sia molto più interessante il comportamento umano rispetto alle dispute dottrinarie (5). Quindi ci avvarremo anche di nostre considerazioni che provengono da una conoscenza diretta, dalla visita in più occasioni di templi e luoghi sacri del Giappone, dalle lunghe conversazioni con i giapponesi. Ciò detto considereremo con la massima stima gli studi degli orientalisti, ma senza che essi influenzino la nostra impostazione della questione che abbiamo già descritto in precedenza. <br />Shintoismo, buddhismo e confucianesimo sono le tre religioni che hanno avuto la maggiore influenza nella storia del Giappone.<br />Per essere corretti, è impreciso usare il termine religione nei confronti di buddhismo e confucianesimo, poiché si presentano in maniera del tutto singolare, e spesso con caratteristiche del tutto differenti dalle religioni, specialmente monoteiste. Molti autori, correttamente, evitano quindi di chiamarle religioni. Noi per amore di chiarezza e semplicità continueremo a usare il termine "religione", ma dopo tale premessa è chiaro che è da intendere in maniera molto elastica. <br /> <br />2.2 Estetica come morale <br /> <br />La più antica e primigenia religione del Giappone fu lo shintoismo. La parola shinto significa letteralmente "la via degli dei". Il termine giapponese per designare gli dei è kami. Nel linguaggio parlato è però usato kamisama che è una forma più rispettosa (sonkeigo). La parola shinto non esisteva e fu coniata soltanto dopo l'arrivo del buddhismo per permettere una distinzione fra i due culti.<br />Il buddhismo fu introdotto in Giappone nel VI secolo, mentre lo shintoismo esisteva già da tempo immemore. La tradizione fa risalire questo culto alla creazione dell'arcipelago giapponese. La divinità solare Amaterasu Omikami avrebbe inviato il nipote Ninigi da cui sarebbe disceso Jinmu Tenno, il primo imperatore del Giappone. Nel 660 a.C. egli sarebbe asceso al trono. Anche se questa datazione è leggendaria (Bramsen riteneva che la data corretta fosse il 130 a.C.) resta comunque indicativa della prospettiva temporale tracciata dallo shintoismo che si intreccia, realmente o fantasticamente, con la storia politica del Giappone. <br />Lo shintoismo è un culto privo di dottrina morale. Inoltre è del tutto assente un'impostazione del problema dell'aldilà. Non c'è una escatologia né una soteriologia. Dunque non è posta nemmeno la questione del bene e del male. Questo che agli occhi degli occidentali sarebbe una debolezza di tale culto, secondo noi è invece un elemento che lo rende più leggero e flessibile, penetrando nella mentalità giapponese inavvertitamente. Importantissimo nello shintoismo è invece la presenza di riti purificatori per eliminare l'impurità (kegare) contratta. Essi sono harae (esorcismo), misogi (abluzione) e imi (astinenza). Il concetto di purificazione è profondamente penetrato nella cultura giapponese. Non soltanto a livello del rituale, ma come concezione psico-sociale. Spesso i rapporti fra le persone sono condizionati da questa idea di purezza e il comportamento giapponese è intriso di manifestazioni di rispetto.<br />Non è difficile per un occidentale scorgere nel formalismo del giapponese una continua esibizione e ricerca di dignità. Lo scrittore Yoshida Kenko descrisse con acutezza questa particolarità dell'atteggiamento giapponese (6). Ed egli non mancò di sottolineare che per gli stessi giapponesi ciò costituiva una difficoltà nei rapporti e nella reciproca comprensione. La mentalità giapponese della purificazione è rintracciabile anche nella pratica del bagno (ofuro) che ha innanzitutto lo scopo di rilassare al termine della giornata, ma anche una valenza psicologica di purificazione dalle impurità contratte durante le attività quotidiane. <br />Essenzialmente lo shintoismo era praticato tramite offerte ai kami in riso, sakè, e altri alimenti (shinsen). Le offerte potevano anche essere stoffe e carte (gohei). Ciò avveniva soprattutto nel tempio (jinja), ma esisteva anche nella casa giapponese un piccolo altare in uno scaffale (tana) che era usato a tale scopo.<br />Il punto più interessante per la nostra trattazione riguarda questa concezione del mondo in cui gli dei sarebbero immanenti, presenti nel mondo reale. I kami pervaderebbero la realtà e molti oggetti avrebbero in sé uno spirito. Nello shintoismo è pratica comune indicare la presenza della divinità tramite uno shimenawa, un festone con strisce di carta che è legato all'oggetto sacro. Anche i torii, sorta di portali, segnalerebbero la presenza del divino nei luoghi naturali presso i templi shintoisti. Dunque la natura è considerata l'essenza dello spirito divino.<br />In questo senso il miracolo non è concepito come in Occidente, la divinità non può porsi sopra la natura poiché nello shintoismo la divinità è parte integrante della natura stessa. Così il tifone che distrusse nel 1281 la flotta dell'invasore Kublai Khan, poi chiamato kamikaze (vento sacro), sarebbe stato un atto divino realizzato tramite un semplice fenomeno naturale.<br />Importante è capire questo punto per comprendere come il pensiero giapponese sia ben poco caratterizzato da elementi sovrannaturali o di superstizione che vengono comunemente attribuiti al pensiero orientale. Il misticismo esiste, ma in modo differente da come immaginato dagli occidentali. Il giapponese vede e sente la magia, ma una magia che è nella realtà. Ogni oggetto e ogni azione pur minima è caricata di un valore che noi occidentali ignoriamo. L'incantesimo del giapponese è scoprire una sorta di magia nella realtà quotidiana.<br />Soltanto così si può apprezzare il sofisticato chado (oppure sado ), la cerimonia del tè, il quale non ha in sé nulla di particolarmente strano. Si tratta esclusivamente di preparare e servire il tè in una atmosfera di armonia seguendo un rituale di gesti che sono funzionali a una operazione pratica. La cerimonia del tè è la dimostrazione del senso della realtà giapponese. Un'azione comune diventa straordinaria. Ciò accade perché nel reale è compresente l'immaginario. <br />Questo ci riporta all'importante concetto di aware a cui abbiamo accennato alla fine del precedente capitolo. Secondo la definizione di Piero Corradini l'aware è la "compenetrazione dell'animo con il mondo circostante" (7). Essa si realizzerebbe nella vita quotidiana. "Questa intensa partecipazione alla vita delle cose che ci circondano si esprime anche nel sentimento di amore per le piccole cose che la natura elargisce, come i fiori e l'erba". Corradini riconosce anche che l'aware è "uno dei tratti importanti che formano la coscienza morale giapponese".<br />Crediamo che l'aware non sia comprensibile pienamente senza quella identità di immaginario e reale che analizzeremo fra poco. I giapponesi danno un valore del tutto diverso agli oggetti, investendoli di significati emotivi a noi sconosciuti.<br />Corradini riconosce che l'aware è alla base della "coscienza morale giapponese", ma sembra tralasciare che si tratta di una ben diversa morale quella che si fonda su criteri estetici. Non è particolare irrilevante.<br />L'idea centrale della nostra indagine è che per capire i fenomeni economici di una società complessa e sviluppata come quella giapponese è necessario adoperare un concetto di razionalità idoneo. Quindi individuare i fondamenti di tale razionalità è il passo essenziale e imprescindibile.Ciò che appare come una sfumatura può essere invece di importanza cruciale. Sul lungo periodo e su scala macroscopica la somma delle piccole diversità crea un abisso che separa irrimediabilmente il pensiero giapponese da quello occidentale. <br />In conclusione possiamo interpretare lo shintoismo come qualcosa di più di un semplice culto. Se manca nello shintoismo una dottrina abbiamo però, come si è visto, una estetica elevata al ruolo di morale. Le scelte che riguardano la condotta sono guidate da canoni estetici piuttosto che da norme etiche. Il concetto di bellezza è per il giapponese molto importante. Secondo il giapponese la bellezza è più di una caratteristica, è un valore assoluto.<br />La lingua giapponese è ricca di espressioni che indicano il coinvolgimento emotivo provocato dalla bellezza. Per esempio, kanashii hodo utsukushii (bello fino alla tristezza). Forse una poesia di Saigyo, fra le più note e amate dai giapponesi, è più chiara di ogni altra spiegazione: <br /><br />Negawakuwa<br />hana no shita nite<br />haru shinamu<br />sono kisaragi no<br />mochizuki no koro <br /><br />Desidero morire a primavera<br />sotto i ciliegi in fiore,<br />nella luna piena di marzo <br /><br />Si può notare come il tema tragico della morte sia trasceso da una superiore percezione estetica della bellezza che ricompone il tutto in una visione distaccata ed estetizzante della vita. <br /> <br />2.3 Identità di immaginario e reale <br /> <br />Se dovessimo tradurre in giapponese il titolo di questo paragrafo, "Identità di immaginario e reale", ci troveremmo alquanto in difficoltà. Infatti l'idea giapponese di realtà è tanto distante dalla nostra che anche a livello linguistico le parole che traducono questo concetto sembrano non rendere l'idea occidentale. Il termine più simile a "realtà" è genjitsu. E in effetti scegliere genjitsu per tradurre "realtà" sarebbe grammaticalmente corretto. Ma lo sarebbe anche filosoficamente? Una consultazione dei dizionari giapponesi può chiarirci le idee. Vediamo alcune definizioni: <br /><br />Ima, manoatari ni arukoto.<br />Le cose che si vedono con i propri occhi. <br /><br />Ima, jissai ni aru jijitsu ya jotai.<br />I fatti e le condizioni che al momento esistono veramente. <br /><br />Ima, gen ni jijitsu toshite sonzai shite iru kotogara.<br />Le cose presenti che esistono e sono vere. (8) <br /><br />A quanto pare, almeno da un confronto linguistico, avremmo torto. La supposta differenza fra il concetto di realtà giapponese e realtà occidentale non esisterebbe. A questo livello superficiale non si distinguono differenze e nemmeno problemi di alcun genere. Ma la situazione è davvero così? Vediamo in particolare come il concetto occidentale di realtà si sia evoluto e come invece non corrisponda al concetto giapponese di realtà. Abbiamo già accennato come la separazione di spirito e materia sia inesistente nel modo di pensare giapponese. Nell'antichità si credeva che i kami fossero presenti negli oggetti e la natura stessa era considerata come il sacro.<br />In Occidente la più netta separazione fra mondo dello spirito e mondo della materia fu operata da René Descartes tramite la distinzione di res cogitans (pensiero) e res extensa (materia). Storicamente il metodo cartesiano ebbe un tale successo da finire per essere incorporato nella scienza moderna. Questa distinzione fu talmente forte da indirizzare tutta la filosofia della scienza, e soprattutto la filosofia del linguaggio, su una serie di questioni e problemi che nascono soltanto perché gli occidentali hanno acquisito queste categorie del pensiero. L'ultima elaborazione di tale suddivisione fu proposta da Karl Popper che distingueva: il mondo materiale, il mondo psichico e il mondo delle idee (9).<br />Incidentalmente vorremmo far notare come il pensiero occidentale proceda tramite separazioni e distinzioni, in modo selettivo, mentre il pensiero orientale consideri le cose nella loro totalità, in modo olistico. Se già nello shintoismo era presente un principio unitario della realtà che univa kami e oggetti nello stesso mondo, con il contributo del buddhismo abbiamo un'ulteriore smaterializzazione degli oggetti. Il buddhismo nega alla realtà la sua concretezza e afferma l'impermanenza di tutte le cose. Così è ben difficile affermare che esista una realtà distinta dallo spirito. Una delle espressioni più famose della lingua giapponese è ukiyo, termine che nacque in ambiente buddhista. Letteralmente ukiyo significa "mondo fluttuante", e indica il mondo materiale percepito dai sensi. Ma questo mondo è appunto di breve durata, evanescente ed effimero, un'illusione, e quindi meno certo dell'insegnamento di Buddha che è l'unica certezza accettabile. Si noti come un concetto astratto, il Buddha e il suo insegnamento, diventi più "reale" del mondo materiale che è delegittimato (10).<br />Il punto cruciale è che il mondo materiale non è contrapposto al mondo spirituale, esso è semplicemente negato nella sua esistenza. Esiste un solo mondo che si manifesta in una pluralità di mondi a causa dei sensi ingannevoli. La pluralità è dunque soltanto un effetto dei sensi. La dottrina buddhista ritiene l'universo unitario, così sarebbe inconcepibile una distinzione di spirito e materia. L'influenza del buddhismo si è inserita nella già esistente concezione immanente dello shintoismo fornendo un rinforzo ulteriore a una concezione unitaria della realtà. Il buddhismo può affermare che il mondo è impermanente ed effimero perché crede che esista una sola sostanza: res extensa (materia) e res cogitans (pensiero) coincidono. <br />Così far coincidere l'immaginario, il mondo psichico e del pensiero, con il reale, il mondo fisico, ci sembra il passo più naturale per avvicinarci al pensiero giapponese. La sovrapposizione di immaginario e reale non implica soltanto una visione mitica e magica, ciò che Weber chiamava "incanto" (Zauber), anzi al contrario. Credo che questo punto saliente sia stato risolto con efficacia da un "teorico della fantasia". Gianni Rodari, nel saggio la Grammatica della fantasia, esprime un'idea non comune (11). La fantasia non erode il pensiero scientifico ma collabora alla sua elaborazione. Pensiero scientifico e pensiero creativo non sarebbero in opposizione. Secondo Rodari la conoscenza nasce dal giocare con la realtà. Il momento in cui si scherza e finge con la realtà (ludico e fantasioso) e il momento in cui si cerca di conoscere (informativo) si alternerebbero senza una frattura netta. Queste considerazioni, apparentemente leggere, rimettono in discussione il concetto occidentale di razionalità dalle radici.<br />Anche Alberto Moravia si era accorto in un suo viaggio in Giappone della diversa percezione della realtà da parte dei giapponesi. Egli descrive la leggerezza del Giappone in un suo articolo per il Corriere della Sera (6 ottobre 1957) paragonando il paese alla lievità di un foglio di carta (12). Non è un caso che siano stati degli scrittori di narrativa a intuire questa diversità e a mostrarla meglio di sociologi e psicologi. Quando l'antropologa Ruth Benedict analizzò i tratti culturali giapponesi, ella si rifece in gran parte alla narrativa giapponese, citando soprattutto Natsume Soseki. <br />Ma l'identità di immaginario e reale ha sia vantaggi che svantaggi. Una difficoltà esiste nell'elaborare concetti astratti così come avviene nel pensiero occidentale. La situazione è questa: i giapponesi non hanno mai avuto una distinzione in due sostanze, una materiale e l'altra spirituale. Quindi essi finiscono per trattare idee astratte in maniera molto concreta e oggetti reali in maniera astratta. Come i giapponesi trasformino, tramite l'astrazione, gli oggetti concreti in opere simboliche è dimostrato da tutta l'arte giapponese sia tradizionale che contemporanea. Viceversa molti pensatori giapponesi hanno mostrato più volte la difficoltà di rendere nella lingua giapponese i concetti astratti delle lingue occidentali. E spesso la soluzione è stata trovata inventando parole o adattando vocaboli stranieri.<br />Il pensiero giapponese è molto concreto e legato a metafore che si rifanno a oggetti materiali caricati di significati simbolici, ma pur sempre cose concrete. Una costruzione per concetti è difficile e la stessa lingua ostacola questa elaborazione.<br />Gli studenti universitari giapponesi studiano concetti astratti formulati da pensatori occidentali, ma a volte hanno enormi problemi di comprensione. Ad esempio, la distinzione di Saussure in significante (la realizzazione fonica della parola, il suo suono) e significato (il concetto della parola), tradotta in giapponese con i termini noki e shoki, è un buona dimostrazione di questi problemi linguistici che nascono da apparati concettuali strutturalmente differenti. La resa con tali termini giapponesi non aiuta gli studenti poiché i kanji (caratteri cinesi) usati richiamano i concetti in questione, ma non in maniera immediata. Il primo utilizza il termine no (abilità), mentre il secondo sho (posto), insieme a ki (descrizione). Una attenta analisi rivela che la costruzione di queste parole è corretta, ma resta il fatto che tutto ciò non è intuitivo. Ciò accade perché il valore concettuale nella lingua giapponese è meno preponderante rispetto a quello espressivo, descrittivo e convenzionale. La difficoltà di traduzione non è dunque da imputare alla capacità degli autori, ma alle basi del ragionamento che sono strutturalmente diverse e che hanno quindi nella lingua un corrispettivo (13).<br />Anche Weber si era accorto di questo gap e attribuì la responsabilità allo sviluppo in Cina e in Giappone di una preminenza della scrittura rispetto alla comunicazione verbale e alla dialettica: <br /><br />"[...] il pensiero rimase confinato in misura di gran lunga superiore nel visivo e la potenza del logos, della definizione e dell'argomentazione non si schiusero [...]"(14) <br /><br />Weber credeva anche di aver individuato le cause storico-sociali: <br /><br />"[...] non il parlare, ma lo scrivere e il leggere come ricezione dei prodotti artistici della scrittura erano considerati la vera attività di valore artistico e degna di un gentiluomo. Il parlare rimase essenzialmente una cosa da plebei." <br /><br />E il paragone con l'Occidente era scontato: <br /><br />"In completo contrasto con l'ellenismo, per il quale la conversazione era tutto e la trasposizione nello stile del dialogo costituiva la raffigurazione adeguata di ogni esperienza vissuta e di ogni scoperta [...]"(15) <br /><br />Effettivamente la differenza fra lingua parlata (hanashikotoba) e lingua scritta (kakikotoba) è molto marcata nel giapponese moderno, e lo era ancora di più nel giapponese antico. Se poi si pensa all'importanza della calligrafia (shodo) che è ritenuta un'arte superiore alla pittura, allora si deve considerare con molta attenzione l'osservazione di Weber.<br />Comunque, qualunque siano state le cause di questa diversa evoluzione del linguaggio, è indubbio che esse hanno segnato lo sviluppo del pensiero giapponese. Probabilmente non esiste una sola causa, ma un insieme di fattori concomitanti. Difficilmente un solo motivo avrebbe potuto segnare così radicalmente tale evoluzione. Infatti, come ci insegna Max Weber, ma anche sociologi contemporanei come Niklas Luhmann, è solo nel sistema complessivo che le diverse variabili possono avere valore.<br />Qui abbiamo mostrato alcuni fattori che hanno indirizzato lo sviluppo singolare del pensiero giapponese, ma più avanti ne individueremo ancora altri. <br />Ma ritorniamo alla religione. L'atteggiamento religioso del giapponese è dunque molto pragmatico. La divinità ha una sorta di funzione molto pratica, e l'individuo ha pochi o nessun dovere nei suoi confronti. Dunque il giapponese, riguardo alla religione, non ha problemi di condotta morale di alcun genere. Tale atteggiamento porta al noto fenomeno del sincretismo religioso giapponese, ossia nel mutuare dalle diverse religioni gli aspetti più comodi al momento. Un aneddoto dice che i giapponesi scelgano il rituale in base alla bellezza del cerimoniale: nascano shintoisti, si sposino con il rito nuziale cristiano, celebrino il rito funebre buddhista.<br />L'indifferenza dei giapponesi nei confronti della religione è un dato di fatto. L'idea di un Giappone mistico è quindi uno stereotipo occidentale. E fu così anche nel passato. Questo confuterebbe chi crede che la modernizzazione abbia provocato una distruzione della tradizione filosofico-religiosa. In verità non è mai esistito niente del genere come è stato immaginato dagli occidentali.<br />Ma se è vero che la condotta della vita religiosa è tanto libera, è altrettanto vero che a livello di quella che Durkheim chiama coscienza collettiva l'influenza è forte. Come si può osservare, non esiste nella cultura giapponese un nucleo centrale di dottrine che ci fornisca direttamente il sistema di credenze, ma dobbiamo ricavarlo volta per volta da elementi diversi e disparati con uno sforzo enorme di concentrazione. E così dobbiamo procedere seguendo un tracciato finissimo e quasi inconsistente.<br />Ciò giustifica la difficoltà degli studiosi occidentali nell'affrontare l'argomento e il fatto che essi siano rimasti sbaragliati da tante e tali complessità. Perciò abbiamo insistito, e continuiamo a insistere, sulla necessità del metodo. Non esiste una strada già spianata che ci porti direttamente al concetto giapponese di razionalità e alle implicazioni economiche e sociali che ne derivano. <br /><br />2.4 Shintoismo e unità nazionale <br /><br />La mitologia shintoista si intreccia con la storia giapponese legittimando il potere imperiale e l'unità nazionale. Dunque il rapporto fra struttura sociale e credenze è molto stretto e merita una maggiore attenzione. Il Giappone fonda la sua unità politica su una base simbolico-immmaginaria che costituisce una forte identità psicologica. Invece gli stati occidentali si ispirano al modello illuminista del contratto sociale e alla libera associazione degli individui intorno a una unità di intenti.<br />In Occidente la politica ha assunto la forma dialettica, dove lo scontro delle idee e dei programmi politici è necessario per il libero esercizio del potere. In Giappone l'idea dello stato fu influenzata dalla filosofia confuciana e dal suo principio del rispetto delle norme (rei in giapponese, li in cinese).<br />Questo modo di concepire la politica può essere sintetizzato con quello che noi definiamo come il concetto di armonia. Così abbiamo in maniera immediata l'idea delle due diverse concezioni politiche: l'occidentale della dialettica e la giapponese dell'armonia. Possiamo riassumerle nelle loro caratteristiche secondo uno schema di dicotomie. <br /><br />Dialettica / Armonia <br />Confllittuale e discorsiva / Aggregante e silenziosa <br />Matrice filosofica illuminista / Matrice filosofica confuciana<br /> <br />Ma prima di giungere alla concezione confuciana dello stato, il Giappone ha dovuto creare un'unità cultura e politica che non fu immediata e facile. Lo shintoismo ebbe un ruolo centrale in questa storia. I giapponesi popolarono l'attuale arcipelago provenendo dai mari del sud (Polinesia e Malesia). Essi si scontrarono con una popolazione autoctona, gli Ainu, di razza caucasica. La mitologia shintoista ricorda questi eventi nei testi del Kojiki (712) e del Nihongi (720).<br />I simboli dell'unità nazionale sono lo specchio (yata no kagami), la collana (yasaka ni no magatama), e la spada (ame no murakumo no tsurugi) che la dea Amaterasu Omikami consegnò al nipote Ninigi. Lo specchio richiama l'immagine del disco solare, la spada la spedizione contro gli Ainu, e la collana è un tipico emblema di potere delle popolazioni dei mari del sud.<br />Lo shintoismo rappresenta anche la prima forma di aggregazione sociale. Il nume tutelare (ujigami) del luogo era l'equivalente del simbolo totemico intorno a cui si costituiva la famiglia uji, ciò che in termini etnologici viene definito come clan. Un altro particolare rilevante è l'organizzazione matriarcale dell'antico Giappone. Ciò non è solo indicato dalla mitologia che vede una dea solare come fondatrice, ma dai testi cinesi (in particolare il Wei Chih del III secolo d.C.) che riferiscono di una regina Pimiku (Himiko in giapponese moderno) a capo del paese di Yamatai (la regione di Yamato nel Giappone centrale). <br />Come si è visto lo shintoismo è essenzialmente una religione ancestrale che affonda le radici nel passato antichissimo dei giapponesi. Ma esso non esaurì la sua forza nemmeno con l'impatto della modernità. In epoche diverse e motivi vari, lo shintoismo fu riproposto e rielaborato insieme a quei concetti che abbiano visto finora.<br />Una di quelle tante contraddizioni apparenti del Giappone, fu il ritorno vigoroso dello shintoismo nel XIX secolo, durante il periodo della modernizzazione. La restaurazione del potere imperiale, con il passaggio del governo effettivo dallo shogun all'Imperatore, segnò anche la necessità di una legittimazione forte di tale potere. La classe dirigente del Giappone fu così impegnata in un vasto processo di riforma dello stato. Anche la religione fu sottoposta a un severo controllo. Lo shintoismo divenne religione di stato (kokka shinto).<br />Con l'editto del 1882 si distinsero due categorie dello shintoismo: lo shintoismo del tempio (jinja shinto) e lo shintoismo delle sette (kyoha shinto). Il primo aveva funzioni istituzionali, il secondo era quello del culto popolare. Lo shintoismo del tempio fu sotto il controllo dell'amministrazione del Ministero degli Interni, mentre lo shintoismo delle sette fu affidato al Ministero dell'Educazione.<br />Si cercò inoltre di purificare lo shintoismo dalle commistioni con il buddhismo, in particolare il ryobu shinto elaborato dal monaco Kobo Daishi (774-835). Il ryobu shinto, forma sincretica di shintoismo e buddhismo, fu dichiarato illecito. Gli imperatori, e particolari personaggi, furono proclamati kami, e furono riprese in parte le teorie e gli studi di Norinaga Motoori (1730-1801), Hirata Atsutane (1776-1843), Kada no Azumamaro (1669-1736), Kitabatake Chikafusa (1293-1354). <br />Se si riflette un attimo su questi eventi storici, si può vedere l'originalità dell'agire razionale giapponese. Mentre in Occidente nel XIX secolo si scontrava lo spirito positivista con il sentimento religioso nel tentativo di una affermazione definitiva della scienza sulla religione, in Giappone si aggirava l'ostacolo. Invece di cercare di cancellare il sentimento religioso, lo si incanalava in forme controllabili e se ne usava la potenza carismatica. Chi aveva organizzato questo assetto istituzionale aveva le idee ben chiare di ciò che stava facendo. Questo tipo di razionalità che tiene conto anche dei fattori immaginari e delle credenze è inusuale in Occidente. Siamo dinanzi a un agire finalizzato a uno scopo che si avvale di un atteggiamento tradizionale. Probabilmente la razionalità giapponese agisce contemporaneamente su piani diversi che invece in Occidente sarebbero conflittuali. <br />Anche la storia europea ha conosciuto ideologie che hanno sfruttato l'immaginario collettivo, ma esse hanno dovuto inventare e costruire una mitologia che le legittimasse. Infatti quelle formulazioni erano basate su teorie che sono terminate con l'esperienza politica dei rispettivi regimi. Invece il governo giapponese del periodo Meiji (1868-1912) usò una mitologia preesistente che era già radicata nella mentalità giapponese ed era indipendente dal regime. Inoltre essa era talmente forte da non poter essere eliminata con la fine di quel potere politico.<br />Questo è un fatto che ha una rilevanza storica fondamentale. Dopo la disfatta della seconda guerra mondiale, il Giappone subì l'occupazione militare degli Stati Uniti, riacquistando l'indipendenza solo nel 1952. Considerando anche la minaccia comunista e la situazione della Corea, era interesse americano che il Giappone ritornasse a uno stato di normalità. Fu quindi una scelta ragionevole e ponderata quella di non esautorare l'Imperatore nonostante ciò che aveva rappresentato durante la guerra. Le forze di occupazione americane non pensarono nemmeno di processare l'Imperatore per giudicare le sue responsabilità nel conflitto, anche se ne avevano il potere. E nella stesura della costituzione giapponese (3 maggio 1947), i primi articoli furono dedicati alla figura dell'Imperatore, riconoscendone ancora il valore simbolico-istituzionale. Probabilmente il lavoro di Ruth Benedict, l'antropologa a cui fu commissionato dal governo statunitense uno studio accurato sul Giappone, era stato letto con molta attenzione. Ella aveva sottolineato l'importanza simbolica dell'Imperatore, e quanto l'unità politica giapponese dipendesse da fattori culturali, dal sistema di credenze e dall'immaginario collettivo. <br /><br />2.5 L'innesto del confucianesimo <br /><br />Molti autori tendono a definire la società giapponese neoconfuciana. Anche noi abbiamo usato l'aggettivo "confuciano", ma crediamo che questa sia una terminologia alquanto fuorviante e obsoleta. Come stiamo vedendo sono tanti e tali gli elementi originali che costituiscono la razionalità giapponese. Inoltre è pericoloso associare il Giappone esclusivamente a una filosofia cinese che ha avuto soltanto una parte, anche se importante, nella sua storia. Sia chiaro che il Giappone è profondamente diverso dalla Cina. La Cina è una società tradizionale le cui unità economiche sono ancora le famiglie. Il Giappone è una società adattativo-integrata (capace cioè di adattare e integrare le innovazioni scientifiche e tecnologiche di altre civiltà alla propria struttura sociale). E le sue unità economiche sono i gruppi di lavoro e le aziende.<br />Gli autori cinesi paragonano la Cina a un cumulo di sabbia e il Giappone a un masso di granito. Secondo i cinesi la struttura sociale giapponese è più rigida di quella cinese. In effetti il processo di razionalizzazione della società giapponese è talmente avanzato che dal punto di vista cinese appare fin troppo rigido.<br />Non dimentichiamo che anche Weber aveva definito la razionalizzazione della società come "una gabbia d'acciaio". Interessante è poi passare al paragone che fanno i giapponesi fra la loro società e quella occidentale usando l'immagine del muro.<br />Innanzitutto bisogna ricordare come sono fatti i muri alla base dei castelli giapponesi e la loro particolare tecnica di costruzione. Essi erano costruiti con sassi irregolari di diverse dimensioni e forme incastrati ad arte. I muri occidentali invece sono costituiti da massi perfettamente squadrati e uguali. Questo è forse il segreto delle due diverse forme di razionalità? L'Occidente ha bisogno di omologare e rendere conformi le componenti prima che entrino a far parte di uno schema. Il Giappone non cambia le diversità, ma le adatta in modo congeniale. L'Occidente opera una modificazione che precede il processo, mentre il Giappone non modifica la natura delle cose ma interviene durante il processo di assemblaggio. Si vede in che maniera sia radicalmente diversa la razionalità giapponese. Quindi è bene analizzare come e in quale misura il confucianesimo è stato adottato in Giappone per capire meglio queste differenze.<br />Il confucianesimo arrivò in Giappone insieme al sistema di scrittura cinese (VI secolo circa). Come si è visto le prime organizzazioni comunitarie giapponesi, le uji, erano assai primitive. La cultura cinese fu quindi, inizialmente, il modello di ispirazione del nascente stato giapponese. Ovviamente tale influenza investì esclusivamente le classi colte e l'aristocrazia. Le prime capitali del Giappone, Nara (710) e Kyoto (794), imitarono la topografia delle capitali cinesi. In particolare il modello fu Ch'ang-an, la capitale della Cina della dinastia T'ang. Anche oggi, visitando Kyoto, ci si rende conto immediatamente dell'assetto urbano e del particolare tracciato stradale assai diverso dalle altre città giapponesi.<br />Nel periodo Tokugawa si ebbe una ulteriore fioritura del confucianesimo con i lavori di Ito Jinsai (1627-1705) e Ogyu Sorai (1666-1728), studiosi noti per il loro atteggiamento scientifico e razionale. L'uso del confucianesimo fu dunque strumentale e limitato agli aspetti politico-istituzionali. Chi abbia studiato Confucio si rende immediatamente conto di quanto sia dunque limitata questa prospettiva.<br />Il principio della filosofia di Confucio che fu maggiormente adottato dai giapponesi e sviluppato è quello del rei (in cinese li), ossia il rispetto delle norme. Come fece notare anche Ruth Benedict, fu invece trascurato il principio del jin (cinese jen), traducibile con benevolenza oppure umanità (16). Gli studiosi giapponesi ne erano a conoscenza, ma non seppero come renderlo consono alla società giapponese. Ruth Benedict non spiegò i motivi di questa mancanza. Però chi conosce adeguatamente Confucio sa bene che il principio del jin è il più importante e fondamentale della sua filosofia. Il governante e il buon cittadino non possono prescindere da questo principio. Perché il concetto di benevolenza rimase estraneo alla cultura giapponese, mentre il rispetto delle regole fu considerato essenziale? Le spiegazioni sono psico-sociali. Come abbiamo visto l'individuo giapponese ha un rapporto emotivo molto forte con gli oggetti della realtà (vedi il concetto di aware). Se i giapponesi avessero lo stesso trasporto anche nei confronti delle persone, il loro comportamento sarebbe incontrollabile e socialmente distruttivo. Si immagini una comunità dove regnassero gli eccessi emotivi come la passione incontenibile, la gelosia esasperata, l'invidia nociva, l'ira furiosa, l'odio implacabile, etc. Non stiamo parlando di una supposizione. Leggendo le cronache delle storie di corte, ci si rende conto che questo fu un pericolo concreto. Quanto l'irrazionalità dei sentimenti minacci continuamente l'equilibrio psichico e sociale giapponese si può leggerlo nel Genji Monogatari, il capolavoro della letteratura giapponese, storia degli amori di corte del principe Genji. Anche i Diari (Nikki) dell'autrice, Murasaki Shikibu, sono di utilità per la comprensione di questa situazione.<br />Il principio della benevolenza era dunque incompatibile con il carattere giapponese. Non poteva esserci benevolenza senza il rischio che questa si tramutasse in un intreccio incontrollabile di sentimenti. Molto meglio seguire le regole formali e cercare un distacco che preservi l'individuo dalla carica distruttiva delle emozioni. <br />Se si vuole capire quanto sia seria tale questione anche in epoca moderna, è sufficiente leggere Kokoro, il capolavoro di Natsume Soseki (1867-1916). Forse gli occidentali hanno trovato una maniera diversa per evitare il potere distruttivo delle emozioni, così come ci insegna Sigmund Freud, tramite la sublimazione. Oppure gli occidentali, hanno semplicemente accettato i loro eccessi emotivi senza averne troppa paura.<br />Nella cultura giapponese gli eccessi emotivi sono considerati assolutamente negativi nel contesto della vita sociale. Esiste anche in Giappone la sublimazione tramite l'arte. E sicuramente ha un valore importantissimo. Il magnificente sviluppo delle arti in Giappone non è dunque occasionale, ma ha anche questa spiegazione. Resta comunque il fatto che reprime i propri sentimenti (kanjou o osaeru) è secondo il giapponese una virtù. E in questo senso il confucianesimo fu inteso soprattutto come un modello di organizzazione civile che permetteva di realizzare una società controllabile. <br /><br />2.6 Il contributo filosofico del buddhismo <br /><br />Secondo il buddhismo il male è l'attaccamento alle cose di questo mondo. E questo attaccamento è prodotto dal desiderio. L'origine dei desideri è soprattutto di natura psichica, dunque la sofferenza dell'uomo è provocata dai suoi pensieri.<br />Lo stato di satori (illuminazione) è quindi la condizione perfetta in cui l'uomo raggiunge il distacco dal mondo e il vuoto mentale. Eliminare il pensiero è la strategia del buddhismo per togliere la sofferenza. Ma lo stato di satori non è solo una condizione di privazione in cui si è eliminata la sofferenza.<br />Accanto a ciò c'è la convinzione che lo stato di satori permetta una conoscenza immediata e perfetta dell'universo. Possiamo spiegare ciò in maniera da non essere criptici. Se la mente non è concentrata sul pensiero, essa è in grado di cogliere tutte le percezioni sensoriali in maniera immediata e perfetta. Dogen spiegava tale idea in questo modo: "Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostre dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia". <br />La svalutazione del pensiero come mezzo conoscitivo è un punto centrale delle filosofia giapponese anche contemporanea. Ovviamente le posizioni sono diverse e si può passare da un totale disprezzo del pensiero a una moderata presa di distanza e ridimensionamento del valore del pensiero. Ma la filosofia giapponese non si limita a una semplice critica come mostrato sinteticamente finora, essa si poggia su una concezione dell'essere totalmente diversa. I primi filosofi occidentali (Martin Heidegger e Karl Löwith) che si occuparono della questione si accorsero immediatamente di tale differenza. E non poteva essere altrimenti, poiché la filosofia giapponese era chiarissima su questo punto.<br />Secondo la filosofia giapponese è il nulla (mu) a costituire l'essenza dell'universo. Nello sforzo di rendere comprensibile tale concetto i filosofi giapponesi diedero diverse definizioni del nulla: "niente assoluto" (Nishida Kitaro), "vuoto" (Nishitani Keiji), "sé senza forma" (Hisamatsu Shin'ichi), "mediazione assoluta" (Tanabe Hajime). L'argomento è talmente vasto che merita una discussione approfondita e più ampia in un capitolo a parte. Qui l'accenno è funzionale a una spiegazione dei tratti essenziali della razionalità giapponese e alle cosiddette radici del pensiero giapponese. <br />Si è visto come la filosofia giapponese derivi dal buddhismo, in particolare lo zen, una svalutazione dell'elaborazione concettuale. Dunque è un po' buffo parlare di pensiero giapponese quando la dottrina più importante di questa filosofia nega appunto ogni valore al pensiero.<br />Eppure tale contraddizione non sussiste, anche perché il concetto di contraddizione è piuttosto occidentale. Si deve accettare l'impaccio degli studiosi occidentali, compreso il nostro, come naturale e inevitabile. Spesso la descrizione in lingue occidentali di espressioni o concetti giapponesi diventa ridicola. La lingua giapponese si è evoluta insieme a quella spiccata sensibilità del popolo giapponese, e il passaggio dal giapponese a una lingua straniera comporta sempre una perdita incommensurabile. Quello che necessita allo studioso in tal caso è una buona dose di umiltà e tanto coraggio. Nonostante la situazione degli errori-orrori mostrata finora, non temiamo di scontrarci con le apparenti contraddizioni e i punti poco chiari. Al contrario, vogliamo trovare tutti i punti incongruenti e oscuri per dimostrare che la soluzione dipende dall'adozione di una diversa logica.<br />Il minore valore che si attribuisce in Giappone al pensiero è anche fra i motivi che hanno creato quella situazione di mancanza teorica a cui avevamo accennato fin dall'inizio. Se da una parte gli studiosi occidentali non erano dotati degli strumenti adeguati per studiare la razionalità giapponese, dall'altra parte i filosofi giapponesi non avevano interesse a occuparsi di un argomento apparentemente estraneo al loro modo di vedere.<br />Oggi la situazione sta radicalmente cambiando grazie a una maggiore collaborazione internazionale. Ma ci sembra che si stiano muovendo solo i primi timidi passi. Se siamo i primi ad affermare l'esistenza di un diverso concetto di razionalità alla base dell'agire giapponese, ciò è assai indicativo della situazione degli studi in questo ambito. <br />Ma cosa pensano i giapponesi di se stessi? Davvero esiste una differenza tanto marcata fra pensiero giapponese e pensiero occidentale? Possiamo continuare a usare il termine "pensiero giapponese" e che senso avrebbe ciò? Per fortuna la sociologia giapponese ci è di aiuto fornendoci un vocabolo che risponde a queste domande: nihonjinron (giapponesità). La parola nihonjinron viene spesso tradotta, per ragioni di semplicità, con "giapponesità". In effetti il significato completo di questo termine è "teoria della specificità della cultura giapponese". Questa parola è composta da nihonjin (individuo giapponese) e ron (teoria) (17). L'esistenza di questo vocabolo nell'ambito della scienza ci è di conforto e sostegno. Esso indica che esiste il problema che stiamo affrontando, una diversità del modo di pensare giapponese, anche nell'ambito della scienza giapponese. Inoltre il termine nihonjinron è molto vicino all'idea e all'uso che noi facciamo dell'espressione "pensiero giapponese". <br /> <br />2.7 Implicazioni economiche per l’influenza delle credenze religiose <br /><br />Weber aveva mostrato che l'etica protestante era stata essenziale come elemento propulsivo del capitalismo. Ma ci sono anche nel buddhismo dei fattori che contribuiscono allo sviluppo dell'economia. Il buddhismo svilisce e mortifica i beni materiali, quindi a svantaggio dell'accumulazione di proprietà e capitali. Ma ciò non significa un inaridimento dell'economia, al contrario. Il non attaccamento alla proprietà incentiva la conversione del capitale in mezzi di produzione. Questo impulso straordinario alla produzione non è rintracciabile in altri sistemi ideologici. Nemmeno il tanto osannato "spirito del capitalismo" descritto da Weber giunge a tanto. Queste forme del capitalismo sono l'una l'inversa dell'altra. L'obiettivo del capitalismo occidentale è il profitto. La produzione è un mezzo per raggiungere il profitto. L'obiettivo del capitalismo giapponese è la produzione. Il capitale è un mezzo per incentivare la produzione. <br />La politica economica di Stati Uniti e Giappone sono la dimostrazione di queste due linee di pensiero. Nei momenti di crisi il governo giapponese investe nella spesa pubblica (politica economica keynesiana), mentre il governo americano opera tagli e licenziamenti. Nel marzo del 1998 il governo giapponese varò una manovra contro la crisi con uno stanziamento di 100.000 miliardi di lire in favore delle banche in difficoltà e una diminuzione delle tasse di 130.000 miliardi di lire. L'etica giapponese è un'etica della produzione. Non si è quel che si ha, si è quel che si fa.<br />Ma il buddhismo e il confucianesimo aggiungono un elemento assente nel capitalismo occidentale: il riconoscimento nel gruppo. Mentre l'etica protestante è un etica individualista (è sufficiente ricordare l'importanza del rapporto singolo-Dio descritto da Kierkegaard), l'etica buddhista e confuciana sono etiche del gruppo. Il buddhismo mortifica l'individualismo come vanità umana. Il confucianesimo esalta la collettività. In questa differenza c'è la natura totalmente diversa delle due forme di capitalismo. Il capitalismo occidentale sostiene la libera concorrenza ed esalta l'individualismo, il capitalismo giapponese favorisce la coesione sociale e incoraggia il gruppo. <br /><br />2.8 Rivisitazione del concetto weberiano di "disincanto del mondo" <br /><br />Alla luce di quanto detto finora, ci sembra nostro dovere rivedere le idee di Weber a proposito delle religioni orientali, e in particolare nel caso del Giappone. Innanzitutto abbiamo visto la sostanziale indifferenza del giapponese nei riguardi della religione e di come invece questa sia penetrata a un livello culturale più profondo e meno appariscente. Questo ci fa capire che non è nella teoria della dottrina religiosa che possiamo comprendere i rapporti fra pensiero e comportamento, ma soltanto più in profondità. Weber aveva ragione a vedere nella cultura giapponese ancora un pensiero irrazionale. Ma questo è ben lungi d'essere d'ostacolo al processo di organizzazione della società. Due sono i motivi che spiegano il potere di razionalizzazione del pensiero giapponese: <br /><br />1) L'incanto e la magia giapponese coincidono con il pragmatismo, in quella unione di immaginario e reale su cui abbiamo insistito. La magia giapponese non è sovrannaturale, è tutta terrena e dei sensi. <br /><br />2) L'immaginazione non è nemica del pensiero scientifico. Questa contraddizione non sussiste. <br /><br />Quindi alla parola "irrazionale" andrebbe sostituita "diversa razionalità". E "pensiero irrazionale" dovrebbe essere corretto con "pensiero di diversa razionalità". Queste osservazioni sulle idee di Weber sono fruttuose se vengono ulteriormente elaborate.<br />In Giappone c'è stata una industrializzazione e modernizzazione senza il "disincanto del mondo". Weber chiamava "disincanto" (Entzauberung) il processo di razionalizzazione nella società che provocava l'eliminazione delle credenze mitiche, magiche e religiose in favore del pensiero logico e strumentale.<br />In Giappone non poteva esserci nessun disincanto poiché non c'era nulla da cui disincantarsi. Non è mai esistita una concezione di Dio come in Occidente, non si è mai creduto in uno spirito slegato dalla materia, non si è mai considerata la natura in contrapposizione all'umano. Il sacro, lo spirituale, il pensiero erano ben stretti alle cose materiali.<br />Così l'immaginazione non è stata mai intaccata dal pensiero scientifico perché è sempre vissuta fra gli oggetti concreti. I giapponesi sono ancora capaci di sognare a occhi aperti e contemporaneamente d'essere di una concretezza disarmante. Avremo occasione di parlare di Morita Akio, il fondatore della Sony, un personaggio che raffigura in sé questi aspetti della mentalità giapponese. Se usiamo il termine "sogno americano" per descrivere la capacità d'impresa e lo spirito d'iniziativa del capitalismo occidentale nordamericano, dovremmo trovare un equivalente per l'idealismo, l'ambizione e l'intraprendenza giapponese. <br />Ma prima di andare oltre fermiamoci ad analizzare una apparente contraddizione: il comportamento pragmatico guidato da una visione idealista della vita. Spesso le azioni dei giapponesi ci appaiono incoerenti e irrazionali. A volte sembrano spiegabili come una sorta di idealismo fino agli estremi del fanatismo, altre volte come concrete fino al limite dello strumentalismo.<br />Entrambi questi elementi sono presenti e inscindibili. L'individuo giapponese è essenzialmente un idealista, crede nel progresso, nell'armonia della società, nei valori della bellezza, ma il suo comportamento è concreto e pragmatico.<br />Questa difficoltà di comprensione è un problema tutto occidentale. Finché si useranno le categorie del pensiero occidentale, e soprattutto il sistema di divisioni e distinzioni, tutto del mondo giapponese ci apparirà bizzarro come il "paese delle meraviglie". Ma al suo interno è del tutto coerente, spesso più delle società occidentali.<br />Bisogna decidere se penetrare in questo mondo o restare nel nostro. Non si tratta soltanto di un problema scientifico, ma di un atto di coraggio. Ci si sarà accorti che stiamo entrando nella struttura del pensiero giapponese proprio usando la razionalità giapponese, eliminando le distinzioni e le dicotomie del pensiero occidentale. Stiamo smontando il mondo così come è stato costruito dagli occidentali e lo ricostruiamo alla maniera giapponese.<br />Crediamo che finora l'incertezza abbia frenato gli studiosi occidentali che hanno tentato di spiegare la società giapponese. Quella paura che prenderebbe chiunque davanti all'ignoto e alla sensazione di perdere tutti i punti di riferimento. Così questi occidentali hanno analizzato la società giapponese con le categorie del pensiero occidentale, e non c'è da meravigliarsi dunque se il risultato è stata una totale incomprensione. <br /><br />Note <br /><br />1. Cfr. Weber, Max, La sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1997.<br />2. Platone è il più illustre accusatore di questo malcostume: "[...] non sono capaci di distinguere nei suoi aspetti l'argomento trattato e d'indagarlo a fondo, ma cercano di contraddire la tesi avversa riducendo la questione a pura terminologia [...]". Platone, La Repubblica, Laterza, Bari, 1997, p. 309, vv. 445a.<br />3. Cfr. Weber, Max, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1948.<br />4. Lafcadio Hearn (1850-1904) parlava della "[...] enorme difficoltà nel percepire e comprendere ciò che è sotto la superficie della vita giapponese". Egli riteneva che fosse impossibile "[...] prima di almeno cinquant'anni, scrivere un testo che raffiguri il Giappone dall'interno, storicamente e socialmente, psicologicamente ed eticamente". Hearn, Lafcadio, Japan: an attempt at interpretation, Tuttle, Tokyo, 1959, p. 1.<br />5. Si leggano, per esempio, i lavori di Emile Durkheim, Marcel Mauss, Lévy-Bruhl, Bronislaw Malinowski, Claude Lévi-Strauss e Franz Boas. La religione viene considerata dagli antropologi all'interno del sistema sociale ed economico, e sempre in relazione al sistema complessivo di credenze.<br />6. Yoshida, Kenko, Tsurezuregusa, Koten Bunko, Tokyo, 1959.<br />7. Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni, Roma, 1999, pp. 442-443.<br />8. I dizionari consultati sono: Daiyamondo kokugojiten (Dizionario delle lingua giapponese Diamond), Shubun, Tokyo, 1997; Gakushuukanjijiten (Dizionario dei kanji), Shogakukan, Tokyo, 1972; Denshijiten Canon IDX-9500 (Dizionario elettronico compilato in collaborazione con l'editore Gakken).<br />9. Cfr. Popper, Karl e Eccles, John, L'io e il suo cervello, Armando, Roma, 1981<br />10. In un interessante saggio (in lingua giapponese), il sociologo Hashizume discute le differenze fra pensiero filosofico occidentale e pensiero buddhista. Hashizume ritiene che il pensiero occidentale sia profondamente diverso da quello giapponese, e cerca nella filosofia di Wittgenstein una alternativa paragonando il gioco linguistico agli esercizi kouan dei monaci buddhisti. Questo audace tentativo mette in luce le difficoltà e le diversità fra il pensiero occidentale e il pensiero giapponese. Tanto che Hashizume interpreta a suo modo Wittgenstein, fino ad affermare, in modo forzato, che il pensiero di Wittgenstein è stato ripudiato dagli occidentali perché si opponeva alla tradizione cristiano-giudaica. Cfr. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale voll.13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 272-291.<br />11. Rodari, Gianni, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973. pp. 102-106. La citazione di Rodari non è arbitraria. Gli studiosi giapponesi di italianistica considerano con la massima stima il lavoro di Rodari. A tale proposito è interessante leggere l'edizione giapponese della Grammatica della fantasia: Kubota, Tomio (a cura di), Fantajii no bunpo, Chikuma Shobo, Tokyo, 1978.<br />12. Moravia, Alberto,Viaggi. Articoli 1930-1990, Bompiani, Milano, 1994. Importanti anche le osservazioni di Italo Calvino nel suo viaggio in Giappone: Calvino, Italo, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano,1994, pp. 167-201.<br />13. L'esempio ci è stato suggerito da una allieva del linguista giapponese Kori Shiro.<br />14. Weber, Max, La sociologia delle religioni, op. cit., p. 541.<br />15. Ibidem, p. 540.<br />16. Benedict, Ruth, Il crisantemo e la spada, Rizzoli, Milano, 1991, p. 131-132.<br />17. L'importanza del nihonjinron ci fu segnalata dal sociologo Yoshino Kosaku alla conferenza "Japanese Culture" tenutasi a Tokyo presso il Ministero degli Affari Esteri (4 settembre 1998).yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4916297266738791009.post-2528224498441333732010-06-11T00:04:00.000-07:002010-06-11T00:05:24.902-07:00Il liberalismo giapponeseJiyushugi. Il liberalismo illuminista giapponese<br />di Cristiano Martorella<br /><br />8 aprile 2002. La parola jiyushugi è composta da jiyu (libertà) e shugi (principio), dunque una traduzione letterale di liberalismo. La corrispondenza non è solo nella parola, ma anche nei concetti. Nonostante ciò l’argomento del liberalismo giapponese è decisamente ignorato dagli occidentali che si compiacciono di una serie di stereotipi orientati a fornire un’immagine autoritaria della società e politica giapponese. Questo desiderio di cristallizzare la vita giapponese in una rappresentazione astrusa si ribella quando si presenta un quadro storico che contraddice qualsiasi dogma preconcetto. Allora si esclude la riflessione e l’analisi dei fatti appellandosi alla specificità culturale. Ma l’uso di questo argomento è mal posto, poiché invece di favorire un confronto lo esclude a priori invocando l’incommensurabilità. Soltanto un uso rigido e strumentale della logica dualistica occidentale può fornire supporto all’idea che qualcosa di diverso debba essere necessariamente sempre opposto e contrario. Viceversa, la logica orientale, come quella del filosofo Nishida Kitaro, partendo dal principio di realtà che presenta le cose come relazioni e non come opposti, afferma l’identità dei contrari (mujunteki doitsu) dissolvendo la contrapposizione. Questa premessa ci permette di comprendere come i giapponesi possano concepire la propria società come fusione (yugo) di istituti e tecniche occidentali con sentimenti e tradizioni autoctone. Al contrario di quanto si pensa, ciò non è considerata contraddittorio e conflittuale, ma come un naturale processo di miglioramento (shinpo).<br />Il liberalismo è uno degli elementi fondamentali che sono entrati a far parte della cultura giapponese. Un elemento che è decisamente ignorato per favorire quell’immagine stereotipata di cui si è parlato prima.<br />Nella seconda metà del XVIII secolo gli studiosi giapponesi delle scienze occidentali, detti rangakusha, non si limitarono alle discipline tecniche (medicina, botanica, fisica, astronomia, etc.) ma estesero i loro interessi anche alle istituzioni e alle idee politiche. Il rapporto privilegiato con l’Olanda, paese che si distingueva per la tolleranza e la garanzia delle libertà, facilitò l’acquisizione di tali conoscenze. In seguito ci si rivolse alla Gran Bretagna, assunta come modello principale (ma è anche la patria del liberalismo, il paese di John Locke e David Hume).<br />Nella prima metà del XIX secolo nuovi studiosi sostennero il rinnovamento del pensiero politico giapponese. Fra questi spiccarono Takano Choei (1804-1850), Watanabe Kazan (1793-1841), Sakuma Shozan (1811-1864) e Oshio Heihachiro (1794-1837), quest’ultimo capeggiò perfino un’insurrezione ad Osaka nel 1837. In questa fase le idee politiche liberali erano limitate a una élite di intellettuali e non avevano vasta diffusione. I contadini (nomin) erano impegnati in rivolte e richieste dell’abbassamento delle tasse, i mercanti (chonin) vedevano accrescere il loro potere economico e culturale ma senza possibilità d’influenza politica, i guerrieri (bushi) tentarono di inserirsi nel nuovo ordine sociale come amministratori. Ma la necessità di un nuovo ordine sociale spingeva alla ricerca di innovative soluzioni che si stavano effettivamente presentando, anche se ancora timidamente.<br />Yamagata Banto (1748-1821), autore di Yume no shiro, sostenne in modo originale il relativismo culturale e l’ateismo.<br /><br />"Ogni dottrina predomina in certi luoghi ed è caratteristica di paesi diversi. […] Fondamentalmente non esistono leggi stabili nel mondo." (Yume no shiro, epilogo e 2,23)<br /><br />Egli riconobbe che sebbene ogni paese fosse in possesso di leggi, non esistevano né leggi naturali né leggi universali, né punizioni divine né premi divini. Si può confrontare questa posizione a quella contemporanea di Voltaire esposta in Micromega e Candido, oppure di Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver, o anche di David Hume nel Trattato sulla natura umana. Questi pensatori, come Yamagata Banto, separavano l’etica dalla religione riportandola nell’arbitrio umano e nella sua sfera di libertà. La libertà della persona era l’unico principio universale che potesse essere sostenuto. Inoltre condannavano severamente la superstizione. Così scriveva Yamagata Banto:<br /><br />Jigoku nashi<br />gokuraku mo nashi<br />ware mo nashi<br />tada aru mono wa<br />hito to banbutsu.<br />Kami hotoke<br />bakemono mo nashi<br />yo no naka ni<br />kimyo fushigi no<br />koto wa nao nashi.<br /><br />Né inferno né paradiso né io,<br />tutto quanto esiste è l’uomo<br />e la moltitudine delle cose.<br />Né dei né Buddha né mostri,<br />tanto meno a questo mondo cose<br />strane e misteriose.<br /><br />Ma se il liberalismo era ancora a un livello primordiale e rudimentale nella generazione dei rangakusha, esso divenne un tema centrale e fondamentale dopo la riforma Meiji (Meiji ishin, 1868). Studiosi giapponesi si recarono in Europa e riportarono con sé le idee politiche che animavano il vecchio continente.<br />Nakae Chomin (1847-1901) apprese il cinese e il francese, fu l’interprete dell’inviato Léon Roche e fece parte della missione Iwakura del 1871 trascorrendo due anni e mezzo in Francia. Divenne editorialista pubblicando sul "Toyo jiyu shinbun" (Libero Oriente), sullo "Shinonome shinbun" (L’Aurora) e sul "Rikken jiyu shinbun" (Libertà costituzionale). Nakae Chomin riteneva che i moderni valori politici e sociali del liberalismo fossero universali e trascendessero le diversità culturali. Egli tradusse il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau esaltandone il valore. Dichiarò di averlo tradotto perché affermava apertamente che la gente aveva dei diritti, e Rousseau era l’autore più importante nel dibattito sui diritti civili.<br /><br />"Rousseau era nel vero quando affermava che l’uomo privo di libertà e diritti non è un uomo. […] Un governo dispotico, diceva Montesquieu, è quello che abbatte l’albero per cogliere il frutto. Come è vero! Se si considerano le cose da questo punto di vista, la soppressione dei diritti civili da parte dei governanti è esasperante." (Nakae Chomin, "Toyo jiyu shinbun", n.1, 18 marzo 1881)<br /><br />Autentico paladino del liberalismo giapponese fu Fukuzawa Yukichi (1834-1901). Anche Fukuzawa si recò all’estero (nel 1860, 1862 e 1867) convincendosi della necessità di aprire il Giappone al sapere e al sistema educativo occidentale. Pubblicò nel 1866 il Seiyo jijo (Lo stato delle cose in Occidente) che ebbe notevole successo, e nel 1872 il Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere). Nel 1873 fondò con Nishi Amane e Mori Arinori la Meirokusha (Società del sesto anno Meiji) e la rivista "Meiroku zasshi". A partire dal 1882 pubblicò un suo quotidiano intitolato "Jiji shinpo" (Notizie dei tempi). Gli articoli delle riviste e giornali curati da Fukuzawa trattavano temi di politica, economia, legge ed educazione, contenevano sferzanti critiche al governo e alle istituzioni, difendevano la libertà di stampa.<br />I valori sostenuti da Fukuzawa Yukichi erano la libertà individuale, l’uguaglianza tra gli uomini, la parità tra gli stati, la civiltà e l’istruzione. In particolare, riprendendo la lezione di John Locke, egli esaltava il ruolo della libertà individuale nella costituzione dello stato. Nel suo Gakumon no susume, egli esordisce affermando:<br /><br />"Si dice che il cielo non crei alcun uomo al di sopra di un altro, e nessun uomo al di sotto di un altro."<br /><br />Il principio della libertà individuale è quindi indispensabile secondo Fukuzawa come fondamento della società e dello stato democratico.<br /><br />"Colui che non si batte per la propria libertà, non si sentirà mai del tutto coinvolto per quella del suo paese. […] Colui che non è in grado di avere la sua indipendenza nel proprio paese non potrà mai difendere i propri diritti e quelli del suo paese […]"<br /><br />Parole che inseriscono Fukuzawa Yukichi fra i pensatori liberali più sinceri e autentici del XIX secolo.<br />Per concludere, una semplice osservazione. Il liberalismo occidentale è definito come un movimento politico e culturale a sostegno della libertà individuale, del riconoscimento dei diritti della persona e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Si può affermare, senza alcun dubbio e dopo quanto considerato, che il liberalismo era presente anche in Giappone già nel XIX secolo. Il liberalismo fu una scelta spontanea e volontaria degli intellettuali giapponesi. La penetrazione del liberalismo fu più modesta nei ceti popolari, ma non si può negare che avvenne anche se in tempi lunghi. La tesi della democrazia come dono delle nazioni occidentali al Giappone è dunque insostenibile. Al contrario, la comunanza dell’eredità liberale dovrebbe far rigettare quel desiderio di distinguere le sorti del popolo giapponese dalle nostre. Il liberalismo è autentico quando afferma l’universalità dei diritti umani. Nessuna diversità culturale può costituire una scusante per negare gli interessi comuni dell’umanità.<br /><br />Bibliografia<br /><br />AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.<br />AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.<br />AA.VV., Nihon no rekishi, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1967.<br />Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.<br />Beonio Brocchieri, Paolo et alii, Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999.<br />Beonio Brocchieri, Paolo, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.<br />Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni Editore, Roma, 1999.<br />Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1996.<br />Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.<br />Reischauer, Edwin, Storia del Giappone, Bompiani, Milano, 1998.<br />Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.<br />Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.yamatologohttp://www.blogger.com/profile/02727161714777271604noreply@blogger.com