venerdì 11 giugno 2010

Il comunismo giapponese

Kyosanshugi. Il comunismo intellettuale giapponese
di Cristiano Martorella

9 giugno 2002. Kyosanshugi ovvero comunismo in giapponese. Ma cominciamo dalle origini mondiali del comunismo. La nascita dei partiti comunisti avvenne tramite l’impulso della III Internazionale fondata a Mosca nel 1919, la quale riprendeva l’esperienza della Rivoluzione russa del 1917. Ciò provocò la scissione dei partiti socialisti preesistenti, come quella del Partito Socialista Italiano che diede vita al Partito Comunista Italiano a Livorno nel 1921. Nel 1922, appena l’anno successivo, veniva fondato clandestinamente in Giappone il Nihon Kyosanto (Partito Comunista Giapponese). Nato dai contatti con il Comintern a Shanghai, ebbe durata breve a causa delle polemiche e della repressione della polizia. Esso si sciolse nel marzo del 1924, ma nel dicembre del 1926 fu ricostituito. Comunque il suo disaccordo con gli altri partiti della sinistra fu tale da impedire qualsiasi azione politica.
Se il comunismo non ebbe una grande presa sulle masse popolari giapponesi, al contrario del socialismo che poteva vantare maggiori consensi, ebbe però un’importanza particolare su alcuni intellettuali. Le idee comuniste, e in particolare il metodo marxista, diedero l’impulso a un tipo di studi inusuali in Giappone e nel mondo asiatico. Tuttavia fu proprio questa caratteristica del comunismo giapponese degli anni Venti e Trenta a costituirne la debolezza. Gli intellettuali marxisti giapponesi erano scettici sulle possibilità di una rivoluzione nell’arcipelago nipponico ed erano orientati a forme di lotta pacifiche come la propaganda e la diffusione degli studi. Ciò impediva la formazione di una base popolare a sostegno del partito. Kawai Eijiro espresse questa situazione della sinistra giapponese e le sue idee con chiarezza.

"Quantunque io parli di socialismo, rifiuto i metodi illegali e approvo quelli legali, aborro la rivoluzione violenta e preferisco gli strumenti parlamentari. Di conseguenza, non mi rivolgo alla plebe infima. Non ho mai discusso di socialismo in un comizio di operai." (Dichiarazione al processo del 1939)

Pure nella loro debolezza, questi intellettuali espressero idee brillanti e critiche pungenti. Kawakami Hajime (1879-1946), poeta, professore e giornalista, era un comunista profondamente influenzato dalla religione, in particolare dal cristianesimo e dal buddhismo. Egli poneva l’attenzione sui valori di umiltà e carità e intendeva il comunismo con un senso pacifista, come la via per eliminare le ingiustizie economiche e sociali. Kawakami era professore di economia e i suoi studi aprirono prospettive nuove e inedite. Nel 1917 pubblicò Binbo monogatari (Racconto di povertà) in cui esaminava la povertà da un punto di vista della scienza economica. Notevole fu Shihonshugi keizaigaku no shiteki hatten (Lo sviluppo storico delle teorie economiche del capitalismo, 1923) e Keizaigaku taiko (Le basi dell’economia, 1928). Nel 1932 si iscrisse al Partito Comunista e partecipò ad attività clandestine. Kawakami Hajime espresse le critiche più profonde e severe allo stato giapponese. Nel 1911 pubblicò Nihon dokutoku no kokkashugi (Il nazionalismo peculiare del Giappone) sulla rivista "Chuokoron". Egli affermò che la condanna degli anarchici, avvenuta nello stesso anno, era intrisa di motivazioni. Il Giappone non poteva permettere che gli anarchici vivessero. Il motivo non era il pericolo costituito dai loro atti violenti, ma la devozione che essi avevano all’ideale e alla causa. Per i giapponesi, secondo Kawakami, il valore più grande e più alto era lo stato e la paura maggiore era la distruzione di questa adorazione.

"I giapponesi, pur disposti ad annullare se stessi nello stato, sono incapaci di farlo per qualcosa di più alto dello stato. Come risultato, gli studiosi sacrificano i loro princìpi allo stato e i monaci la loro fede. Questa è la ragione per cui noi giapponesi manchiamo di grandi pensatori e di grandi religiosi. Lo stato è il nostro Dio, e l’Imperatore rappresenta il divino kokutai. Il nostro sovrano incarna ciò che denominiamo la divinità astratta dello stato." (Nihon dokutoku no kokkashugi, 1911)

Altri intellettuali si avvicinarono alle dottrine marxiste come Miki Kiyoshi, Nakano Shigeharu, Kurahara Korehito e Kobayashi Takiji. Il filosofo Miki Kiyoshi (1897-1947) spiccò per la novità dei suoi studi. Dopo aver studiato con Nishida Kitaro si orientò alla filosofia della storia introducendo il metodo d’analisi marxista. Nel 1928 diede vita insieme ad Hani Goro alla rivista "Shinko kagaku no hata no moto ni" (Sotto la bandiera della nuova scienza) dove scrisse saggi sul marxismo. Nel 1931 pubblicò Rekishi tetsugaku (Filosofia della storia). Nonostante fosse cacciato dall’università per aver diffuso le idee marxiste, Miki Kiyoshi non era un comunista integrale, e il suo stesso metodo di studio era debitore a pensatori come Blaise Pascal, Martin Heidegger e il maestro Nishida Kitaro. Miki usò il marxismo, come altri intellettuali giapponesi, per il suo alto valore scientifico.
Agli occhi del comunismo occidentale Miki Kiyoshi può apparire più un avversario che un compagno. Infatti egli fu involontariamente fra i sostenitori del nihonjinron (specificità culturale giapponese) utilizzando gli stessi metodi del marxismo. In Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero, 1939) egli sostenne la formazione e la forza delle idee generate dalla storia e dai processi materiali. Così Miki Kiyoshi trovava una spiegazione della specificità giapponese conforme al materialismo storico. La diversa storia del Giappone avrebbe costituito da sola sia la causa sia l’effetto dell’originalità culturale nipponica. Sappiamo che la sinistra occidentale ha sempre etichettato come ideologica questa presunta specificità giapponese. Eppure Miki, coerente con il suo metodo d’indagine e fedele al materialismo storico, giungeva a un’analisi che partiva da presupposti materiali. Inoltre egli riusciva a spiegare l’ideologia, o sovrastruttura, in un contesto unitario e non fazioso, così come doveva essere per l’indagine storica.
Paradossale che i filosofi giapponesi dell’inizio del XX secolo avessero una conoscenza più perspicua della storia? Non è affatto casuale. I comunisti Michael Hardt e Antonio Negri stanno rimproverando ai loro compagni l’errore di non aver condotto analisi sulla produzione e riproduzione sociale fermandosi soltanto agli aspetti intellettuali e metafisici. La stessa osservazione può essere rivolta ai critici marxisti del sistema giapponese, ma perfino agli stessi Hardt e Negri che nelle loro indagini ignorano la differenza giapponese. Se il postmoderno è caratterizzato da una mancanza di senso, non è casuale che anche gli attuali studi sociologici abbiano perso l’interesse a fornire spiegazioni sensate.
L’influenza del marxismo sugli intellettuali giapponesi degli anni Venti e Trenta fu davvero forte. Noro Eitaro (1900-1934) pubblicò Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) in cui conduce una descrizione diacronica dei cambiamenti sociali coordinata dall’utilizzo sincronico dei concetti sociologici. Ciò gli consentì d’applicare uno studio comparativo e di trattare fenomeni prettamente giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. Noro Eitaro aderì al Partito Comunista nel 1930, ma fu arrestato e torturato a morte dalla polizia soltanto quattro anni più tardi.
Altri storici giapponesi furono influenzati dal marxismo. Nel 1928 Hattori Shiso (1901-1956) pubblicò Meiji ishinshi (Storia della Restaurazione Meiji) e Hani Goro (1901-1983), nello stesso anno, Seisan ishinshi kenkyu (Studio sulla storia della Restaurazione). Insieme scrissero Nihon shihonshugi hattatsushi koza (Studi sulla storia dello sviluppo del capitalismo giapponese), opera in sette volumi editi fra il 1932 e il 1933.
Fortissima fu l’influenza anche sui letterati. Dazai Osamu (1909-1948) si iscrisse al Partito Comunista ma lo abbandonò nel 1932, pentendosi in seguito di questa scelta e avvertendo il senso di colpa d’aver lasciato i compagni di lotta. Anche Akutagawa Ryunosuke scrisse un saggio intitolato Puroretaria bungei to wa nan de aro (Che cos’è la letteratura proletaria?, 1927). Il comunista Kobayashi Takiji (1903-1933) scrisse il romanzo Kani kosen (La nave dei granchi, 1929) in cui descriveva le condizioni dei lavoratori su una nave da pesca e denunciava gli abusi del potere. Nel 1933 pubblicò Tenkan jidai (Età di cambiamenti) in cui racconta la storia di un iscritto al partito.
Altri scrittori marxisti furono Miyamoto Yuriko (1899-1951) e Nakano Shigeharu (1902-1979). Miyamoto Yuriko visse due anni e mezzo (1928-1930) in Unione Sovietica insieme a Yuasa Yoshiko, una studiosa di letteratura russa. Tornata in Giappone si iscrisse nel 1931 al Partito Comunista e sposò Miyamoto Kenji. Nonostante i numerosi arresti scrisse parecchi racconti e saggi. Il marito fu detenuto per dodici anni, e in questo periodo scrisse migliaia di lettere pubblicate nel 1950 col titolo Juninen no tegami (Dodici anni di lettere).
Un’altra scrittrice proletaria fu Hayashi Fumiko (1904-1951) che lavorò come venditrice ambulante, cameriera e inserviente nei caffè. Ella scrisse Horoki (Storia del vagabondaggio, 1928), un’opera che commosse molti lettori. Hayashi Fumiko ebbe una popolarità straordinaria nel Giappone del dopoguerra e la sua vita fu rappresentata al teatro, al cinema e alla televisione. La sua città, Onomichi, la ricorda con affetto e con una presenza costante (musei, statue, mostre, musei, celebrazioni, etc.).
La controversa storia del comunismo giapponese si costella così di eventi drammatici e popolari, che se da un lato gli rendono fama, dall’altro non gli consentono di ottenere quel consenso elettorale necessario per influire nella vita politica giapponese. Dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, gli americani abolirono la terribile legge sull’ordine pubblico del 1900 e il 4 ottobre 1945 furono liberati i comunisti ancora detenuti. Ma l’essersi opposti al regime non facilitò la vita dei comunisti giapponesi.
Il Kyosanto (Partito Comunista), fuori legge dal 1924, tornò alla ribalta e riorganizzato dai vecchi dirigenti usciti dalla prigione e dal ritorno di quelli che si erano rifugiati dai comunisti cinesi (come Nonaka Sanzo). Rinasceva così nella piena legalità (1 dicembre 1945). Purtroppo le elezioni del 10 aprile 1946 furono estremamente deludenti. I socialisti ebbero il 17,8 per cento dei voti, mentre i comunisti appena il 3,8 per cento. Liberali e progressisti raggiunsero invece il 43 per cento. Le elezioni del 23 gennaio 1949 segnarono un successo per i comunisti ottenendo il 9,7 per cento dei voti, circa tre milioni di elettori. Il merito fu di Nonaka Sanzo che attraverso gli slogan "rivoluzione pacifica" e "comunismo simpatico" volle dare un’impronta tranquillizzante e umana al comunismo. Gli anni Sessanta e Settanta furono un periodo di duri scontri sociali che videro l’occupazione delle università e i tafferugli degli studenti con la polizia. La sinistra comunista contestava l’alleanza con gli Stati Uniti che erano considerati gli artefici di un nuovo imperialismo. Le vicende della guerra del Vietnam sembravano legittimare queste critiche. Negli anni Ottanta il benessere sembrava far dimenticare le diatribe della politica. Ma gli scandali della corruzione avrebbero colpito la classe dirigente, e l’opposizione comunista non avrebbe mancato l’occasione di condannare e mostrare le deformazioni del potere. Ma il comunismo doveva fare i conti con la storia, e il crollo dell’Unione Sovietica sembrava intonare il requiem per i seguaci di Marx. Questo scossone politico non sembrava però colpire le fondamenta del Partito Comunista in Giappone che veniva criticato per la sua arretratezza sulle posizioni marxiste di fine Ottocento. Ma era questa genuinità e arcaismo del comunismo giapponese che lo preservava dalle crisi ideologiche che colpirono gli altri partiti della sinistra. Essersi radicati ai valori della III Internazionale aveva significato non essere scesi a compromessi con i regimi sovietici, cubani e cinesi. Quest’ultimo recentemente convertitosi al capitalismo più bieco sostenuto dalla dittatura del partito unico.
Cosa rimane del comunismo giapponese? In Europa si parla di comunismo come di un fantasma del passato. E in effetti così comparve sulla scena mondiale secondo le stesse parole di Marx ed Engels. Però il Giappone è un paese dove si è abituati a convivere con i fantasmi, così come piaceva a Lafcadio Hearn, e si può esser certi che il comunismo non solo non apporterà danni, ma come in passato solleciterà il paese con nuove idee. E se ne avrà la forza, tirerà i fagioli ai nuovi e vecchi orchi come nella tradizione giapponese.

Bibliografia

AA.VV., Nihon no rekishi. Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.
Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.
Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.
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Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.
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Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.