venerdì 19 novembre 2010

Il nazionalismo giapponese

Articolo sul nazionalismo e patriottismo giapponese pubblicato dal blog Discutiamo del Giappone [discutiamodelgiappone.blogspot.com].

Aikokushin, l'amor patrio
Lineamenti di storia della politica nazionalista giapponese
di Cristiano Martorella

7 maggio 2008. Lo spirito patriottico giapponese (aikokushin) è ben noto per i risvolti tragici provocati dallo sfruttamento nazionalista e propagandistico del regime autoritario instaurato dai militari nel XX secolo. Chiarire e capire come ciò sia avvenuto è il compito degli storici. L'apporto di ulteriori studi e ricerche è quindi benvenuto e utile per fornire nuove prospettive. Questo contributo si inserisce nel lungo dibattito sulle origini del totalitarismo, e intende distinguere gli aspetti culturali dalla matrice ideologica. Il Giappone, a differenza di Italia e Germania, non ha mai avuto una precisa base ideologica politica, e nonostante ciò ha realizzato un regime totalitario sfruttando le caratteristiche culturali del popolo giapponese. Però lo sfruttamento nazionalistico della cultura giapponese non può essere interpretato come una equivalenza. La cultura giapponese non è equiparabile in toto a un regime autoritario. Non sono le caratteristiche culturali ad aver generato il totalitarismo, ma la storia degli stati, il loro assetto istituzionale e politico, infine le relazioni internazionali.
Lo stato come entità trascendentale astratta è una creazione occidentale del XIX secolo (pur avendo la sua formulazione teorica già nel XVII secolo ad opera di Thomas Hobbes). La teorizzazione compiuta di tale entità è merito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Purtroppo la storia ha visto coincidere la nascita dello stato-nazione con la smisurata crescita della potenza militare e il brutale sfruttamento del colonialismo. Hegel, al contrario, aveva magnificamente elaborato una mirabile sintesi fra i diritti individuali e l'organizzazione della collettività nello spazio politico dello stato, dove realizzare concretamente le facoltà e aspirazioni umane. Purtroppo il XIX secolo, e il seguente XX secolo, stravolsero la dottrina di Hegel facendo dello stato un'entità astratta al servizio di forze economiche e politiche brutali, crudeli e spregiudicate. Il Giappone seguì le democrazie occidentali imitandone le istituzioni e le leggi con la riforma Meiji (Meiji ishin) del 1867.
L'introduzione così rapida della democrazia non coincise però con un rafforzamento delle forze liberali (partiti, sindacati, movimenti politici, etc.) che furono sottoposte a un graduale indebolimento. In particolare, furono gravissimi gli attentati ai politici di orientamento liberale che assassinati crudelmente non poterono svolgere la propria attività. I fanatici di estrema destra ebbero con facilità la possibilità di creare un clima di instabilità favorendo l'eversione e i tentativi di colpo di stato. Ogni volta che lo stato mostrava la sua debolezza, essi fomentavano l'insoddisfazione popolare invocando lo spirito patriottico (aikokushin). Il processo di destabilizzazione fu molto lento e graduale poiché non mancavano le resistenze dei ferventi sostenitori delle democrazia (politici, imprenditori, insegnanti, studenti, giornalisti, operai, etc.). Disgraziatamente gli estremisti inflissero dei colpi durissimi alle istituzioni. Nel 1921 uccisero il Primo Ministro Hara Takashi presso la stazione di Tokyo. Fu un attentato brutale e spietato. Il 14 novembre 1930 fu aggredito il Primo Ministro Hamaguchi Osachi, morto l’anno successivo in conseguenza delle ferite riportate. Il 15 maggio 1932 fu assassinato nella propria residenza il Primo Ministro Inukai Tsuyoshi. Nello stesso anno furono uccisi il Ministro delle Finanze e capo del Rikken Minseito (Partito Costituzionale Democratico), Inoue Junnosuke, e il direttore della Mitsui, Dan Takuma. Nel 1936, durante un tentativo di colpo di stato, furono ammazzati il Ministro delle Finanze Takahashi Korekiyo e l'ammiraglio Saito Makoto.
Un aspetto particolare e fondamentale per capire la situazione complessa del militarismo giapponese del XX secolo, è costituito dalla cruenta lotta interna nell'esercito. Infatti, i militari negli anni '30 erano divisi in due fazioni avversarie: Kodoha e Toseiha. Dopo il fallimento del tentato colpo di stato del 26 febbraio 1936, la fazione Kodoha cadde in rovina e conobbe il declino politico. La Kodoha criticava aspramente l'eccesso di potere delle cricche economiche che detenevano un monopolio, avversava quindi gli zaibatsu e il capitalismo. Il declino della Kodoha permise così un più facile rafforzamento del legame fra militari e zaibatsu, eliminando gli elementi di attrito. La Toseiha (fazione di controllo) non intendeva cambiare la struttura dello stato, ma impadronirsene per condurre una guerra di conquista. Quindi privilegiava una riorganizzazione dell'esercito fondata sulla meccanizzazione delle unità e una specializzazione tecnica. Al contrario, la Kodoha (fazione della via imperiale) puntava sul ripristino dei valori spirituali tradizionali, e quindi sul cambiamento della società attraverso una riorganizzazione dello stato. La Kodoha riteneva prioritaria la riorganizzazione dello stato prima di qualsiasi intervento militare, e considerava l'Unione Sovietica l'avversario naturale del Giappone e delle sue mire espansionistiche. I militari che guidavano la Kodoha erano Araki Sadao e Masaki Jinzaburo. La supremazia della Toseiha significò anche un avvicinamento alle idee politiche della Germania nazista, come nel caso di Yamashita Tomobumi. Addetto militare all'ambasciata giapponese in Austria, Yamashita fu chiamato nel 1938 per una visita di cortesia a Berlino, dove simpatizzò con Adolf Hitler, mantenendo in seguito stretti legami col nazismo. Le forze armate giapponesi non avevano un'unica visione politica, inoltre non esisteva un partito politico di riferimento, e gli obiettivi erano diversi e contrastanti. Purtroppo la supremazia della Toseiha segnò la svolta rovinosa della politica giapponese che prima appoggiò la Germania nazista, eppoi fu trascinata in guerra contro gli Stati Uniti nel 1941. Tuttavia non erano tutti d'accordo con queste scelte che furono descritte come patriottiche da quei militari al potere interessati unicamente ai vantaggi per la propria fazione.
Gli estremisti sostennero sempre di essere dei patrioti (aikokusha), tuttavia è evidente che il loro amore per il paese era insincero, avendo desiderato di destabilizzare lo stato. Essi non erano affatto patrioti perché erano giunti a desiderare la distruzione dello stato giapponese, quando videre minacciati i propri interessi. Addirittura i fanatici tentarono anche di destituire sua maestà l'Imperatore Hirohito, quando egli decise di dichiarare la resa del paese. Il tenente colonnello Takeshita Masahiko fu l'artefice e organizzatore del tentato colpo di stato contro Hirohito. Il 14 agosto 1945 vi fu l'irruzione di ufficiali dello Stato Maggiore nel Palazzo Reale di Tokyo. Il maggiore Hatanaka Kenji uccise il generale Mori Takeshi, comandante delle guardie imperiali, fedele all'Imperatore e favorevole alla resa.
Queste azioni criminali furono facilitate dal consenso che l'estrema destra era riuscita a creare. Il punto di svolta era costituito infatti dallo sfruttamento del sentimento nazionalistico e del sincero patriottismo. Gli intellettuali di estrema destra furono abilissimi nell'elaborare dottrine e piani politici d'intervento che coinvolgevano la popolazione. Spesso le loro idee non mancavano di originalità ed erano sofisticate e accurate. La propaganda riuscì così ad oscurare il buon senso e le ragioni dei liberali. Il più noto attivista politico di estrema destra fu Kita Ikki, instancabile agitatore e pericoloso sovversivo, scrisse un volume che indicava chiaramente le azioni da intraprendere. L'opera era intitolata Piano per la ricostruzione del Giappone (Nihon kaizo hoan taiko, 1919) e sosteneva la necessità di eliminare il Parlamento, sospendere la Costituzione, realizzare una riforma agraria contro i latifondisti, espropriare le ricchezze dell'alta borghesia ed estirpare il capitalismo. Per ottenere ciò bisognava perseguire una politica di potenza militare, invadendo le zone dotate di risorse minerarie e petrolifere, conquistando la Manciuria, la Cina settentrionale e la Siberia. Kita Ikki affermava che la rivolta dei poveri contro i ricchi era un ristabilimento della giustizia. La matrice culturale a cui si rifaceva era però ben altra, ed era comune a molti intellettuali giapponesi. Si trattava del ruralismo (nohonshugi), un movimento ideologico che poneva al centro della società la comunità agricola, con il suo spirito di autogoverno. Il regime militarista fece del ruralismo il fondamento per il modello sociale del sistema imperiale. La comunità agricola, tesa a mantenere l'armonia sociale, doveva rappresentare il modello ideale al quale tutta la società giapponese si ispirava e conformava, una società priva quindi di contraddizioni e dunque conflitti e antagonismi (ma anche assente di dialettica fra le parti sociali). Un altro concetto che accostava il ruralismo era il familismo (kazokushugi), anch'esso mutuato dalla tradizione. Fra i discepoli di Kita Ikki, merita una considerazione Okawa Shumei, filosofo e studioso delle religioni che propugnava la necessità di un ritorno alle antiche tradizioni del Giappone. Nel 1925 egli fondò perciò la Società del paradiso e della terra (Gyochisha), e partecipò alla costituzioni di altre organizzazioni patriottiche. Altri pensatori come Gondo Seikyo e Tachibana Kosaburo espressero l'orientamento del “comunitarismo fraterno”. Questi intellettuali, Okawa Shumei, Tachibana Kosaburo, Gondo Seikyo, a cui va aggiunto anche Inoue Nissho, si fecero promotori di una autentica rivolta contro il modello occidentale in nome della cultura e spirito giapponese.
Purtroppo i sovversivi e i terroristi si inserirono prepotentemente in questo dibattito, sfruttando la situazione e dirigendo il malumore e la protesta. Difatti la critica al modello occidentale non implicava la scelta di azioni violente, e la politica imperialista e colonialista era perseguita già da quelle nazioni straniere tanto detestate. Le soluzioni proposte dagli estremisti di destra assomigliavano troppo al problema che si voleva risolvere: lo stato giapponese sarebbe divenuto un regime autoritario imperialista e colonialista che avrebbe combattuto con le armi il colonialismo occidentale.
La trasformazione dello stato giapponese avvenne in modo graduale e si avvalse di molte condizioni e caratteristiche favorevoli all'autoritarismo. Una di queste condizioni fu la concezione dell'individuo come strumento dello stato e lo sfruttamento del patriottismo. Questa strumentalizzazione degli esseri umani fu possibile grazie alla militarizzazione e mobilitazione del paese. Tramite la giustificazione della guerra contro i paesi che opprimevano il Giappone, si rendeva indiscutibile il processo di trasformazione in regime totalitario. La sindrome dell'accerchiamento e della minaccia del colonialismo occidentale fu un argomento tanto forte che ancora oggi ricompare in molti libri storici di autori giapponesi come spiegazione dell'intervento militare dell'Impero del Sol Levante. Bisogna però ristabilire il corretto rapporto causale fra gli eventi. L'esistenza del colonialismo occidentale in Asia è solo un fattore, un elemento, a cui si contrapponevano i nazionalisti giapponesi. Il regime autoritario fu creato tramite il graduale indebolimento delle istituzioni democratiche da parte degli estremisti di destra. Il merito e le colpe di ciò che accadde è da attribuirsi alle dinamiche delle relazioni fra forze politiche. La sindrome dell'accerchiamento del colonialismo occidentale funzionò come strumento di propaganda, così come lo sfruttamento del patriottismo, del nazionalismo e dell'identità culturale. Il regime utilizzò ampiamente le caratteristiche della civiltà giapponese, soprattutto lo spirito di gruppo (shudan ishiki), un aspetto profondamente radicato nella mentalità giapponese. Purtroppo tutte le facoltà apprezzabili ed encomiabili dello spirito di gruppo (shudan ishiki) diventano deprecabili quando degenerano nel conformismo. Fu il pedagogista Makiguchi Tsunesaburo a indicare il conformismo come male e insidia pericolosa per la libertà nella società giapponese. Il dilagante conformismo minacciava la capacità di critica, le proposte di prospettive alternative, la riflessione raziocinante e non emotiva. Infine favoriva l'obbedienza cieca e disumana, la crudeltà che schiacciava il singolo individuo, la credulità ignorante e superstiziosa. Il conformismo di gruppo (dantaishugi) è un male sociale che compromette ogni forma di democrazia, ed è quindi l'indizio e l'inizio dell'instaurarsi di un regime totalitario.
Il fatto storico più importante e vistoso fu comunque la militarizzazione della società. A differenza di Germania e Italia, il Giappone non sviluppò un'ideologia basata su un partito, bensì subì violentemente la penetrazione dell'esercito nelle istituzioni parlamentari e nel governo, in ogni aspetto della vita sociale, dalla famiglia alla scuola, fino al lavoro nell'industria. L'ideologia che si affermò fu il militarismo (gunkokushugi) in una forma totalitaria mai vista in precedenza. Infatti il militarismo giapponese del XX secolo non va affatto confuso con l'aristocrazia guerriera delle epoche precedenti. I samurai erano una ristretta classe aristocratica separata dalle altre, con precisi obblighi e doveri, quindi subordinata e soggetta al potere politico. L'esercito giapponese fin dal 1873, era invece un esercito di leva e la coscrizione era obbligatoria. Esisteva una mobilitazione totale della società al servizio dell'esercito. L'esercito era divenuto un'entità politica assimilante e coinvolgente che assoggettava ogni istituto (famiglia, scuola, industria). Tutti i cittadini erano soldati, e ognuno doveva fornire il proprio contributo per la causa che era il potenziamento militare del paese. In questo sistema non era però ben demarcato il confine fra i diversi poteri, anzi era tutto molto confuso e labile. In teoria il potere assoluto spettava all'Imperatore, ma nella realtà la Costituzione gli impediva di prendere iniziative. Il potere di governo era spesso nelle mani di militari che assumevano le decisioni più importanti senza consultare l'Imperatore e il Parlamento. Concretamente il potere era gestito in maniera dispotica, come in una caserma, con piccole e grandi prevaricazioni. Le rivalità fra militari erano forti, spesso a discapito della collaborazione. Il dialogo era assente, la comunicazione scarsa, mentre prevalevano i comandi, le esortazioni, il biasimo e gli slogan.
La propaganda era florida e si avvaleva della nota sensibilità artistica del popolo giapponese. Molti scrittori esaltarono l'eroismo e la dedizione dei soldati giapponesi in guerra, comunque la prodezza e il valore in questo caso erano autentici anche se materia della retorica. Il capitano Sakurai Tadeyoshi raccontò nel romanzo autobiografico Nikudan (Proiettili umani) l'assedio di Port Arthur durante la guerra russo-giapponese. La fama delle imprese dei soldati giapponesi giunse fino in Europa, tanto che persino uno scrittore italiano e corrispondente dall'estero, Luigi Barzini, ne riportò e narrò le gesta eroiche. Numerosi furono i poemi commemorativi, come il Canto in onore di Shirakami Genjiro, un trombettiere che suonò la carica anche se ferito a morte. I sacrifici del popolo giapponese in guerra non furono esaltati soltanto dai patrioti e dalla propaganda di estrema destra, anche alcuni scrittori di sinistra, e la cosiddetta puroretaria bungaku (letteratura proletaria), si occuparono dell'abnegazione dei cittadini che semplicemente amavano il proprio paese. In questo senso il patriottismo non era un argomento di esclusivo appannaggio della destra.
La militarizzazione del paese fu una catastrofe, tanto da essere indicata con un'espressione molto forte: kurai tanima (l'abisso oscuro, all'incirca l'epoca dal 1931 al 1941, ossia dall'invasione della Manciuria alla Guerra del Pacifico). L'elemento di discriminazione restava tuttavia la concezione dello stato poiché l'idea più diffusa considerava i cittadini come servitori della nazione. Anche accettando questa concezione, si riconosce facilmente come i militari abbiano tradito il proprio paese favorendo gli interessi personali, occupando ogni posto di potere, depredando le risorse della nazione. Perciò i libri di storia dovrebbero spiegare con più chiarezza e nei particolari il modo in cui i generali Tojo Hideki, Yamashita Tomobumi, Tani Hisao e tanti altri, usarono il potere assunto per arricchirsi, sfruttare e saccheggiare. La giustificazione della guerra servì a troppi militari per nascondere i propri furti, stupri e abusi. Questo fu il più alto tradimento del paese.

Bibliografia

Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.
Bergamini, David, Japan's Imperial Conspiracy, Morrow, New York, 1971.
Brown, Delmer, Nationalism in Japan. An Introductory Historical Analysis, University of California Press, Berkeley, 1955.
Chang, Iris, Lo stupro di Nanchino, Corbaccio, Milano, 2000.
De Palma, Daniela, Il Giappone contemporaneo. Politica e società, Carocci, Roma, 2008.
Frattolillo, Oliviero, Il Giappone e l'Occidente: Dalla rivolta culturale al simposio sul superamento della modernità, L'Orientale Editrice, Napoli, 2006.
Harries Mairion e Harries, Soldiers of the Sun, Random House, New York, 1991.
Henshall, Kenneth, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Herzog, Peter, Japan's Pseudo Democracy, New York University Press, New York, 1993.
Maruyama, Masao, Le radici dell'espansionismo, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Ohnuki Tierney, Emiko, Kamikaze, Cherry Blossoms, and Nationalisms, University of Chicago, Chicago, 2001.
Sugiyama, Takie, Japanese Patterns of Behaviour, University of Hawaii Press, Honolulu, 1976.
Toland, John, L'eclisse del Sol Levante, Arnoldo Mondadori, Milano, 1971.

Il militarismo giapponese

Articolo sul militarismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:

1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista "paese ricco ed esercito forte" nelle democrazie del XXI secolo.

La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di "fascismo giapponese", poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.

Note

1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.

Bibliografia

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Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.
Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.
Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in "Oriens", n.1, vol.8, 1955.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.

Il liberalismo giapponese

Articolo sul liberalismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Jiyushugi. Il liberalismo illuminista giapponese
di Cristiano Martorella

8 aprile 2002. La parola jiyushugi è composta da jiyu (libertà) e shugi (principio), dunque una traduzione letterale di liberalismo. La corrispondenza non è solo nella parola, ma anche nei concetti. Nonostante ciò l’argomento del liberalismo giapponese è decisamente ignorato dagli occidentali che si compiacciono di una serie di stereotipi orientati a fornire un’immagine autoritaria della società e politica giapponese. Questo desiderio di cristallizzare la vita giapponese in una rappresentazione astrusa si ribella quando si presenta un quadro storico che contraddice qualsiasi dogma preconcetto. Allora si esclude la riflessione e l’analisi dei fatti appellandosi alla specificità culturale. Ma l’uso di questo argomento è mal posto, poiché invece di favorire un confronto lo esclude a priori invocando l’incommensurabilità. Soltanto un uso rigido e strumentale della logica dualistica occidentale può fornire supporto all’idea che qualcosa di diverso debba essere necessariamente sempre opposto e contrario. Viceversa, la logica orientale, come quella del filosofo Nishida Kitaro, partendo dal principio di realtà che presenta le cose come relazioni e non come opposti, afferma l’identità dei contrari (mujunteki doitsu) dissolvendo la contrapposizione. Questa premessa ci permette di comprendere come i giapponesi possano concepire la propria società come fusione (yugo) di istituti e tecniche occidentali con sentimenti e tradizioni autoctone. Al contrario di quanto si pensa, ciò non è considerata contraddittorio e conflittuale, ma come un naturale processo di miglioramento (shinpo).
Il liberalismo è uno degli elementi fondamentali che sono entrati a far parte della cultura giapponese. Un elemento che è decisamente ignorato per favorire quell’immagine stereotipata di cui si è parlato prima.
Nella seconda metà del XVIII secolo gli studiosi giapponesi delle scienze occidentali, detti rangakusha, non si limitarono alle discipline tecniche (medicina, botanica, fisica, astronomia, etc.) ma estesero i loro interessi anche alle istituzioni e alle idee politiche. Il rapporto privilegiato con l’Olanda, paese che si distingueva per la tolleranza e la garanzia delle libertà, facilitò l’acquisizione di tali conoscenze. In seguito ci si rivolse alla Gran Bretagna, assunta come modello principale (ma è anche la patria del liberalismo, il paese di John Locke e David Hume).
Nella prima metà del XIX secolo nuovi studiosi sostennero il rinnovamento del pensiero politico giapponese. Fra questi spiccarono Takano Choei (1804-1850), Watanabe Kazan (1793-1841), Sakuma Shozan (1811-1864) e Oshio Heihachiro (1794-1837), quest’ultimo capeggiò perfino un’insurrezione ad Osaka nel 1837. In questa fase le idee politiche liberali erano limitate a una élite di intellettuali e non avevano vasta diffusione. I contadini (nomin) erano impegnati in rivolte e richieste dell’abbassamento delle tasse, i mercanti (chonin) vedevano accrescere il loro potere economico e culturale ma senza possibilità d’influenza politica, i guerrieri (bushi) tentarono di inserirsi nel nuovo ordine sociale come amministratori. Ma la necessità di un nuovo ordine sociale spingeva alla ricerca di innovative soluzioni che si stavano effettivamente presentando, anche se ancora timidamente.
Yamagata Banto (1748-1821), autore di Yume no shiro, sostenne in modo originale il relativismo culturale e l’ateismo.

"Ogni dottrina predomina in certi luoghi ed è caratteristica di paesi diversi. […] Fondamentalmente non esistono leggi stabili nel mondo." (Yume no shiro, epilogo e 2,23)

Egli riconobbe che sebbene ogni paese fosse in possesso di leggi, non esistevano né leggi naturali né leggi universali, né punizioni divine né premi divini. Si può confrontare questa posizione a quella contemporanea di Voltaire esposta in Micromega e Candido, oppure di Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver, o anche di David Hume nel Trattato sulla natura umana. Questi pensatori, come Yamagata Banto, separavano l’etica dalla religione riportandola nell’arbitrio umano e nella sua sfera di libertà. La libertà della persona era l’unico principio universale che potesse essere sostenuto. Inoltre condannavano severamente la superstizione. Così scriveva Yamagata Banto:

Jigoku nashi
gokuraku mo nashi
ware mo nashi
tada aru mono wa
hito to banbutsu.
Kami hotoke
bakemono mo nashi
yo no naka ni
kimyo fushigi no
koto wa nao nashi.

Né inferno né paradiso né io,
tutto quanto esiste è l’uomo
e la moltitudine delle cose.
Né dei né Buddha né mostri,
tanto meno a questo mondo cose
strane e misteriose.

Ma se il liberalismo era ancora a un livello primordiale e rudimentale nella generazione dei rangakusha, esso divenne un tema centrale e fondamentale dopo la riforma Meiji (Meiji ishin, 1868). Studiosi giapponesi si recarono in Europa e riportarono con sé le idee politiche che animavano il vecchio continente.
Nakae Chomin (1847-1901) apprese il cinese e il francese, fu l’interprete dell’inviato Léon Roche e fece parte della missione Iwakura del 1871 trascorrendo due anni e mezzo in Francia. Divenne editorialista pubblicando sul "Toyo jiyu shinbun" (Libero Oriente), sullo "Shinonome shinbun" (L’Aurora) e sul "Rikken jiyu shinbun" (Libertà costituzionale). Nakae Chomin riteneva che i moderni valori politici e sociali del liberalismo fossero universali e trascendessero le diversità culturali. Egli tradusse il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau esaltandone il valore. Dichiarò di averlo tradotto perché affermava apertamente che la gente aveva dei diritti, e Rousseau era l’autore più importante nel dibattito sui diritti civili.

"Rousseau era nel vero quando affermava che l’uomo privo di libertà e diritti non è un uomo. […] Un governo dispotico, diceva Montesquieu, è quello che abbatte l’albero per cogliere il frutto. Come è vero! Se si considerano le cose da questo punto di vista, la soppressione dei diritti civili da parte dei governanti è esasperante." (Nakae Chomin, "Toyo jiyu shinbun", n.1, 18 marzo 1881)

Autentico paladino del liberalismo giapponese fu Fukuzawa Yukichi (1834-1901). Anche Fukuzawa si recò all’estero (nel 1860, 1862 e 1867) convincendosi della necessità di aprire il Giappone al sapere e al sistema educativo occidentale. Pubblicò nel 1866 il Seiyo jijo (Lo stato delle cose in Occidente) che ebbe notevole successo, e nel 1872 il Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere). Nel 1873 fondò con Nishi Amane e Mori Arinori la Meirokusha (Società del sesto anno Meiji) e la rivista "Meiroku zasshi". A partire dal 1882 pubblicò un suo quotidiano intitolato "Jiji shinpo" (Notizie dei tempi). Gli articoli delle riviste e giornali curati da Fukuzawa trattavano temi di politica, economia, legge ed educazione, contenevano sferzanti critiche al governo e alle istituzioni, difendevano la libertà di stampa.
I valori sostenuti da Fukuzawa Yukichi erano la libertà individuale, l’uguaglianza tra gli uomini, la parità tra gli stati, la civiltà e l’istruzione. In particolare, riprendendo la lezione di John Locke, egli esaltava il ruolo della libertà individuale nella costituzione dello stato. Nel suo Gakumon no susume, egli esordisce affermando:

"Si dice che il cielo non crei alcun uomo al di sopra di un altro, e nessun uomo al di sotto di un altro."

Il principio della libertà individuale è quindi indispensabile secondo Fukuzawa come fondamento della società e dello stato democratico.

"Colui che non si batte per la propria libertà, non si sentirà mai del tutto coinvolto per quella del suo paese. […] Colui che non è in grado di avere la sua indipendenza nel proprio paese non potrà mai difendere i propri diritti e quelli del suo paese […]"

Parole che inseriscono Fukuzawa Yukichi fra i pensatori liberali più sinceri e autentici del XIX secolo.
Per concludere, una semplice osservazione. Il liberalismo occidentale è definito come un movimento politico e culturale a sostegno della libertà individuale, del riconoscimento dei diritti della persona e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Si può affermare, senza alcun dubbio e dopo quanto considerato, che il liberalismo era presente anche in Giappone già nel XIX secolo. Il liberalismo fu una scelta spontanea e volontaria degli intellettuali giapponesi. La penetrazione del liberalismo fu più modesta nei ceti popolari, ma non si può negare che avvenne anche se in tempi lunghi. La tesi della democrazia come dono delle nazioni occidentali al Giappone è dunque insostenibile. Al contrario, la comunanza dell’eredità liberale dovrebbe far rigettare quel desiderio di distinguere le sorti del popolo giapponese dalle nostre. Il liberalismo è autentico quando afferma l’universalità dei diritti umani. Nessuna diversità culturale può costituire una scusante per negare gli interessi comuni dell’umanità.

Bibliografia

AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.
AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.
AA.VV., Nihon no rekishi, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1967.
Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.
Beonio Brocchieri, Paolo et alii, Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999.
Beonio Brocchieri, Paolo, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.
Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni Editore, Roma, 1999.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1996.
Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.
Reischauer, Edwin, Storia del Giappone, Bompiani, Milano, 1998.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.

Il socialismo giapponese

Articolo sul socialismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Shakaishugi. Il socialismo utopico giapponese
di Cristiano Martorella

30 maggio 2002. Se si può dire che le tematiche socialiste siano state quasi un tabù in Giappone, a maggior ragione si può affermare che in Occidente si è volutamente ignorata la storia del socialismo giapponese. In effetti si può capovolgere la questione e mettere in luce come e quanto si sia voluto nascondere in Occidente. Spesso si è considerata la politica giapponese come una semplice emanazione di un supposto spirito autoritario che non incontrava opposizione grazie a un’attitudine collaborativa di matrice confuciana. Purtroppo o per fortuna, secondo i casi, questo modello non corrisponde agli eventi storici.
Curiosamente perfino la sinistra italiana ha misconosciuto le lotte e le aspirazioni dei socialisti giapponesi. Così abbiamo potuto leggere sulle pagine de "Il Manifesto" i numerosi articoli di Pio d’Emilia che denunciavano l’arretratezza culturale dei giapponesi descritti come un popolo politicamente disimpegnato. Ma anche questi interventi, seppure meritevoli di occuparsi della questione, erano lontani da una corretta conoscenza della storia politica giapponese. Ed è questo il punto che invece vogliamo considerare.
La parola shakaishugi traduce letteralmente socialismo, essendo composta da shakai (società) e shugi (principio, dottrina, -ismo). Il termine apparve in Giappone intorno al 1880. In quel periodo esisteva già un movimento liberale che si batteva per i diritti civili, l’eguaglianza, la libertà e il suffragio universale. Nel 1882 fu fondato il Toyo shakaito (Partito Socialista dell’Oriente) con un programma antiautoritario ispirato ai populisti russi. Il partito fu immediatamente sciolto, ma nel 1883 fu fondato lo Shakaito (Partito Socialista) che organizzò proteste e manifestazioni di notevole intensità. Agli inizi degli anni Novanta alcuni intellettuali della sinistra liberale si orientarono verso le idee del socialismo moderno. Nel 1893 venne fondata la Minyusha (Società degli amici del popolo) che costituì sia una casa editrice sia un’associazione. Nel 1893 pubblicò Genji no shakaishugi (Il socialismo attuale), e nel 1894 la rivista diretta da Tokutomi Iichiro intitolata "Kokumin no tomo" (L’amico della nazione). Nel 1894 venne pubblicato anche Shinkyu shakaishugi (Socialismo vecchio e nuovo), traduzione di Socialism New and Old (Londra, 1890) di William Graham. Ciò a conferma dell’attenzione che i socialisti giapponesi avevano nei confronti del panorama internazionale. In questo contesto avvennero i contatti fra socialisti americani e giapponesi. Il giornalista Takano Fusataro strinse contatti con i numerosi operai emigrati negli Stati Uniti, e così anche Katayama Sen, laureatosi in America.
Nel 1897 Takano Fusataro pubblicò Shokko shokun ni yokosu (Appello ai compagni lavoratori) in cui denunciava lo sfruttamento e le ingiustizie del capitalismo. Come altri intellettuali giapponesi, era però dubbioso delle possibilità di una lotta rivoluzionaria. Nel 1897 Katayama Sen e Takano Fusataro fondarono un forte sindacato giapponese (Sindacato dei lavoratori metallurgici) sul modello dei sindacati americani. Katayama dirigerà anche un bimestrale intitolato "Rodo sekai" (Mondo del lavoro).
Circa i sindacati, il primo fu quello costituito nel 1883 dai conducenti di risciò contro l’introduzione delle carrozze a cavalli. Nel 1894 apparve quello dei tipografi. Ma erano ancora privi di una forte organizzazione, aspetto che fu invece curato nel 1897. Nel 1898 vi fu lo sciopero dei macchinisti della società ferroviaria Nippon tetsudo, i quali rivendicavano una migliore posizione sociale e stipendi più alti.
La repressione non si fece attendere. Nel 1900 il governo promulgò una legge di polizia sulla sicurezza pubblica (chian keisatsu ho) che proibiva qualsiasi attività operaia e sindacale. La censura proibì la traduzione in giapponese di molti autori come Sombart, Zola, Engels, Marx e Tolstoj. Il divieto rimase fino al 1914. Ovviamente i socialisti trovarono qualsiasi espediente per aggirare i divieti. I sindacati poterono agire come "società di mutuo soccorso" e molte pubblicazioni apparvero con la copertura dell’utilizzo a fini di studio. Infatti la legge prevedeva che si potessero pubblicare scritti con finalità di studio se questi non recavano disturbo all’ordine pubblico. Così apparve nel 1906 la traduzione del Manifesto del Partito Comunista sulle pagine dello "Shakaishugi kenkyu" (Studi socialisti).
Ma l’atmosfera era tutt’altro che tranquilla. Nel settembre 1905 vi furono i moti di Tokyo nati da una manifestazione nel parco di Hibiya per protestare contro le clausole dell’accordo di Portsmouth fra il Giappone e la Russia. Gli scontri furono durissimi, perirono 17 civili sotto i colpi delle spade della polizia e furono distrutti più della metà dei presidi della polizia. Fu proclamata la legge marziale. Il Primo Ministro Katsura Taro fu costretto a dimettersi e fu sostituito dal Principe Saionji. Nel 1906 una serie di scioperi partiti dal cantiere navale di Ishikawajima (febbraio 1906) si estesero all’arsenale civile di Kure, all’arsenale militare di Tokyo (agosto 1906), all’arsenale di Osaka (dicembre 1906), al cantiere navale di Nagasaki (febbraio 1907) e al porto militare di Yokosuka (maggio 1907). A questi scioperi si aggiunsero quelli delle miniere (Ashio, Horonai, Besshi e Ikuno). Il governo reagì con una riorganizzazione industriale e una feroce repressione. Quando Katsura Taro ritornò al potere (luglio 1908) la repressione divenne ancora più brutale. Katsura decise di eliminare definitivamente la sinistra militante.
I socialisti giapponesi avevano però reagito bene ai tentativi di soppressione. Nel 1898 Katayama Sen, Abe Isoo, Kawakami Kiyoshi e altri fondarono lo Shakaishugi kenkyukai (Associazione per lo studio del socialismo) e nel 1900 la Shakaishugi kyokai (Associazione socialista). Il 20 maggio 1901 venne fondato lo Shakai minshuto (Partito Socialdemocratico). Le proposte dei fondatori comprendevano il suffragio universale, il disarmo, la nazionalizzazione delle terre, dei capitali e dei trasporti, e l’istruzione pubblica a carico dello stato. Il partito venne sciolto dopo due giorni per volontà del governo.
I socialisti non si arresero. Nel febbraio 1906, approfittando del governo liberale di Saionji Kinmochi, fondarono il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone). Il congresso di Tokyo (17 febbraio 1907) del Nihon shakaito vide due mozioni contrapposte. Kotoku Shusui sostenne l’azione diretta, mentre Tazoe Tetsuji appoggiò una tattica parlamentare e legalitaria. L’assemblea congressuale votò a maggioranza una terza mozione di compromesso presentata da Sakai Toshihiko. Ma Katsura Taro attendeva solo un pretesto per soffocare nel sangue il movimento socialista. Avvenne l’episodio delle "bandiere rosse" (22 giugno 1908) causato dalle incomprensioni fra le due fazioni socialiste. La fazione dell’azione diretta, ispirata alla tendenza anarchica, era capeggiata da Kotoku Shusui, Arahata Kanson e Osugi Sakae. L’altra fazione, la corrente parlamentare e moderata, era sostenuta da Tazoe Tetsuji, Ishikawa Sanshiro, Sakai Toshihiko e Yamakawa Hitoshi. L’episodio vide i manifestanti della fazione più radicale agitare le bandiere rosse provocatoriamente. La polizia reagì violentemente.
Nel maggio 1910 avvenne l’episodio gravissimo del "taigyaku jiken" (il caso di alto tradimento). Furono arrestati numerosi militanti socialisti, tra cui Kotoku Shusui, accusati di aver complottato l’assassinio dell’Imperatore. L’accusa era falsa e pretestuosa, ma trovò nelle parole a favore dell’azione diretta un indizio per essere sostenuta. In realtà la corrente più intransigente dei socialisti non era mai andata oltre il livello teorico nell’adesione all’anarchismo.
Tokutomi Roka (1868-1927) commentò così l’episodio:

"Sono chiamati ribelli e traditori, ma non erano dei ribelli ordinari, erano uomini dagli alti ideali […] che si sono sacrificati per un sogno, quello di un nuovo mondo di libertà e uguaglianza, uomini che desideravano fare del loro meglio per l’umanità. […] Kotoku e gli altri furono considerati dei ribelli dal governo e uccisi. Ma voi non dovete temere i ribelli. Non temete i ribelli. Non temete di diventare ribelli voi stessi. Tutto ciò che è nuovo è ribellione." (Bozza di una conferenza, 1911)

Dodici dei socialisti arrestati furono condannati a morte e impiccati. Fra di loro c’erano Kotoku Shusui e Kanno Sugako. Quest’ultima era stata giornalista, fidanzata di Arahata Kanson, convivente e amante di Kotoku, e aveva partecipato all’episodio delle "bandiere rosse". Le donne giapponesi ebbero un ruolo straordinario nella storia del movimento socialista. Ingiustamente trascurate dai testi occidentali, le donne giapponesi svolsero un’attività intensa che produsse i maggiori cambiamenti a livello sociale lottando per i diritti fondamentali (emancipazione, parità dei sessi, istruzione, suffragio universale). Inoltre aggiunsero nuove motivazioni e istanze alle rivendicazioni dei socialisti, contribuendo ad armonizzare le riforme e l’esistenza umana.
Contemporanea di Kanno Sugako fu Hiratsuka Raicho (1886-1971). Ella portò avanti il movimento di emancipazione femminile raccoltosi intorno alla rivista "Seito" (Calze blu, dal nome di un circolo femminile del XVIII secolo, blue stocking). In tempi recenti, la tradizione femminile socialista ebbe fra gli esponenti più significativi la signora Doi Takako che guidò il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone) all’opposizione e a numerosi successi elettorali (in particolare nel 1989).
Si può così affermare che ogni epoca del Giappone vide l’impegno delle donne nel cambiamento sociale. L’emancipazione femminile avvenne in tempi così rapidi che sarebbe difficile spiegarla come un semplice riflesso dell’Occidente. In realtà le donne giapponesi avevano sempre avuto un’importanza fondamentale nella società giapponese. E questo avvenne anche per quanto riguarda il movimento socialista.
Higuchi Ichiyo (1872-1896) fu la più importante scrittrice del periodo Meiji, autrice di Takekurabe (Gara d’altezza, 1895) compose circa tremila tanka. Ella fu autodidatta e dimostrò la possibilità di emancipazione delle donne e delle classi modeste attraverso la diffusione della cultura e dell’istruzione.
Yosano Akiko (1878-1942) rappresentò un altro caso di donna emancipata e disinibita. Insistendo sulla necessità di liberare le donne dalle convenzioni, usò la poesia tradizionale (tanka) come mezzo di riscatto sociale. La donna raffigurata da Yosano Akiko era indipendente, consapevole delle sue scelte e dei suoi desideri. La poetessa non mancò di concretizzare nella sua esistenza questi ideali, dimostrandone la possibilità di realizzazione.
Hiratsuka Haruko (1886-1971), attivista socialista conosciuta con lo pseudonimo di Raichou, era chiamata "la donna della nuova era". Fra i suoi articoli ricordiamo Genshi josei wa taiyo de atta (Nei primordi la donna era il sole). Fu amante dello scrittore socialista Morita Yonematsu con il quale tentò il suicidio d’amore (shinju). Morita non comprese le motivazioni di Hiratsuka che desiderava il suicidio per "realizzare il suo ideale di vita, un viaggio solitario, una vittoria dei suoi vent’anni". Egli descrisse però la sua esperienza nel romanzo Fuliggine che divenne documento dello scandalo.
Come è qui emerso, il socialismo non fu soltanto un movimento politico, ma soprattutto un fervore intellettuale e culturale che rinnovò il Giappone. La letteratura giapponese fu profondamente influenzata dal socialismo, sia direttamente (per le tematiche) sia indirettamente (per fornire una risposta alternativa alle domande sollevate dai socialisti). E come tale il socialismo è intensamente e inseparabilmente legato alla storia del Giappone. Una storia mantenuta segreta in Occidente.
Se il socialismo è l’utopia dell’eguaglianza e della giustizia sociale, indipendentemente da ogni realizzazione pratica, sarà sempre immortale come ideale. E nessuna repressione potrà spegnere questa fiamma alimentata proprio dall’ingiustizia che vorrebbe soffocarla.

Bibliografia

AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.
Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.
Engels, Friedrich e Marx, Karl, Manifesto del Partito Comunista, Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1998.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.
Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998.
Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.

Il comunismo giapponese

Articolo sul comunismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Kyosanshugi. Il comunismo intellettuale giapponese
di Cristiano Martorella

9 giugno 2002. Kyosanshugi ovvero comunismo in giapponese. Ma cominciamo dalle origini mondiali del comunismo. La nascita dei partiti comunisti avvenne tramite l’impulso della III Internazionale fondata a Mosca nel 1919, la quale riprendeva l’esperienza della Rivoluzione russa del 1917. Ciò provocò la scissione dei partiti socialisti preesistenti, come quella del Partito Socialista Italiano che diede vita al Partito Comunista Italiano a Livorno nel 1921. Nel 1922, appena l’anno successivo, veniva fondato clandestinamente in Giappone il Nihon Kyosanto (Partito Comunista Giapponese). Nato dai contatti con il Comintern a Shanghai, ebbe durata breve a causa delle polemiche e della repressione della polizia. Esso si sciolse nel marzo del 1924, ma nel dicembre del 1926 fu ricostituito. Comunque il suo disaccordo con gli altri partiti della sinistra fu tale da impedire qualsiasi azione politica.
Se il comunismo non ebbe una grande presa sulle masse popolari giapponesi, al contrario del socialismo che poteva vantare maggiori consensi, ebbe però un’importanza particolare su alcuni intellettuali. Le idee comuniste, e in particolare il metodo marxista, diedero l’impulso a un tipo di studi inusuali in Giappone e nel mondo asiatico. Tuttavia fu proprio questa caratteristica del comunismo giapponese degli anni Venti e Trenta a costituirne la debolezza. Gli intellettuali marxisti giapponesi erano scettici sulle possibilità di una rivoluzione nell’arcipelago nipponico ed erano orientati a forme di lotta pacifiche come la propaganda e la diffusione degli studi. Ciò impediva la formazione di una base popolare a sostegno del partito. Kawai Eijiro espresse questa situazione della sinistra giapponese e le sue idee con chiarezza.

"Quantunque io parli di socialismo, rifiuto i metodi illegali e approvo quelli legali, aborro la rivoluzione violenta e preferisco gli strumenti parlamentari. Di conseguenza, non mi rivolgo alla plebe infima. Non ho mai discusso di socialismo in un comizio di operai." (Dichiarazione al processo del 1939)

Pure nella loro debolezza, questi intellettuali espressero idee brillanti e critiche pungenti. Kawakami Hajime (1879-1946), poeta, professore e giornalista, era un comunista profondamente influenzato dalla religione, in particolare dal cristianesimo e dal buddhismo. Egli poneva l’attenzione sui valori di umiltà e carità e intendeva il comunismo con un senso pacifista, come la via per eliminare le ingiustizie economiche e sociali. Kawakami era professore di economia e i suoi studi aprirono prospettive nuove e inedite. Nel 1917 pubblicò Binbo monogatari (Racconto di povertà) in cui esaminava la povertà da un punto di vista della scienza economica. Notevole fu Shihonshugi keizaigaku no shiteki hatten (Lo sviluppo storico delle teorie economiche del capitalismo, 1923) e Keizaigaku taiko (Le basi dell’economia, 1928). Nel 1932 si iscrisse al Partito Comunista e partecipò ad attività clandestine. Kawakami Hajime espresse le critiche più profonde e severe allo stato giapponese. Nel 1911 pubblicò Nihon dokutoku no kokkashugi (Il nazionalismo peculiare del Giappone) sulla rivista "Chuokoron". Egli affermò che la condanna degli anarchici, avvenuta nello stesso anno, era intrisa di motivazioni. Il Giappone non poteva permettere che gli anarchici vivessero. Il motivo non era il pericolo costituito dai loro atti violenti, ma la devozione che essi avevano all’ideale e alla causa. Per i giapponesi, secondo Kawakami, il valore più grande e più alto era lo stato e la paura maggiore era la distruzione di questa adorazione.

"I giapponesi, pur disposti ad annullare se stessi nello stato, sono incapaci di farlo per qualcosa di più alto dello stato. Come risultato, gli studiosi sacrificano i loro princìpi allo stato e i monaci la loro fede. Questa è la ragione per cui noi giapponesi manchiamo di grandi pensatori e di grandi religiosi. Lo stato è il nostro Dio, e l’Imperatore rappresenta il divino kokutai. Il nostro sovrano incarna ciò che denominiamo la divinità astratta dello stato." (Nihon dokutoku no kokkashugi, 1911)

Altri intellettuali si avvicinarono alle dottrine marxiste come Miki Kiyoshi, Nakano Shigeharu, Kurahara Korehito e Kobayashi Takiji. Il filosofo Miki Kiyoshi (1897-1947) spiccò per la novità dei suoi studi. Dopo aver studiato con Nishida Kitaro si orientò alla filosofia della storia introducendo il metodo d’analisi marxista. Nel 1928 diede vita insieme ad Hani Goro alla rivista "Shinko kagaku no hata no moto ni" (Sotto la bandiera della nuova scienza) dove scrisse saggi sul marxismo. Nel 1931 pubblicò Rekishi tetsugaku (Filosofia della storia). Nonostante fosse cacciato dall’università per aver diffuso le idee marxiste, Miki Kiyoshi non era un comunista integrale, e il suo stesso metodo di studio era debitore a pensatori come Blaise Pascal, Martin Heidegger e il maestro Nishida Kitaro. Miki usò il marxismo, come altri intellettuali giapponesi, per il suo alto valore scientifico.
Agli occhi del comunismo occidentale Miki Kiyoshi può apparire più un avversario che un compagno. Infatti egli fu involontariamente fra i sostenitori del nihonjinron (specificità culturale giapponese) utilizzando gli stessi metodi del marxismo. In Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero, 1939) egli sostenne la formazione e la forza delle idee generate dalla storia e dai processi materiali. Così Miki Kiyoshi trovava una spiegazione della specificità giapponese conforme al materialismo storico. La diversa storia del Giappone avrebbe costituito da sola sia la causa sia l’effetto dell’originalità culturale nipponica. Sappiamo che la sinistra occidentale ha sempre etichettato come ideologica questa presunta specificità giapponese. Eppure Miki, coerente con il suo metodo d’indagine e fedele al materialismo storico, giungeva a un’analisi che partiva da presupposti materiali. Inoltre egli riusciva a spiegare l’ideologia, o sovrastruttura, in un contesto unitario e non fazioso, così come doveva essere per l’indagine storica.
Paradossale che i filosofi giapponesi dell’inizio del XX secolo avessero una conoscenza più perspicua della storia? Non è affatto casuale. I comunisti Michael Hardt e Antonio Negri stanno rimproverando ai loro compagni l’errore di non aver condotto analisi sulla produzione e riproduzione sociale fermandosi soltanto agli aspetti intellettuali e metafisici. La stessa osservazione può essere rivolta ai critici marxisti del sistema giapponese, ma perfino agli stessi Hardt e Negri che nelle loro indagini ignorano la differenza giapponese. Se il postmoderno è caratterizzato da una mancanza di senso, non è casuale che anche gli attuali studi sociologici abbiano perso l’interesse a fornire spiegazioni sensate.
L’influenza del marxismo sugli intellettuali giapponesi degli anni Venti e Trenta fu davvero forte. Noro Eitaro (1900-1934) pubblicò Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) in cui conduce una descrizione diacronica dei cambiamenti sociali coordinata dall’utilizzo sincronico dei concetti sociologici. Ciò gli consentì d’applicare uno studio comparativo e di trattare fenomeni prettamente giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. Noro Eitaro aderì al Partito Comunista nel 1930, ma fu arrestato e torturato a morte dalla polizia soltanto quattro anni più tardi.
Altri storici giapponesi furono influenzati dal marxismo. Nel 1928 Hattori Shiso (1901-1956) pubblicò Meiji ishinshi (Storia della Restaurazione Meiji) e Hani Goro (1901-1983), nello stesso anno, Seisan ishinshi kenkyu (Studio sulla storia della Restaurazione). Insieme scrissero Nihon shihonshugi hattatsushi koza (Studi sulla storia dello sviluppo del capitalismo giapponese), opera in sette volumi editi fra il 1932 e il 1933.
Fortissima fu l’influenza anche sui letterati. Dazai Osamu (1909-1948) si iscrisse al Partito Comunista ma lo abbandonò nel 1932, pentendosi in seguito di questa scelta e avvertendo il senso di colpa d’aver lasciato i compagni di lotta. Anche Akutagawa Ryunosuke scrisse un saggio intitolato Puroretaria bungei to wa nan de aro (Che cos’è la letteratura proletaria?, 1927). Il comunista Kobayashi Takiji (1903-1933) scrisse il romanzo Kani kosen (La nave dei granchi, 1929) in cui descriveva le condizioni dei lavoratori su una nave da pesca e denunciava gli abusi del potere. Nel 1933 pubblicò Tenkan jidai (Età di cambiamenti) in cui racconta la storia di un iscritto al partito.
Altri scrittori marxisti furono Miyamoto Yuriko (1899-1951) e Nakano Shigeharu (1902-1979). Miyamoto Yuriko visse due anni e mezzo (1928-1930) in Unione Sovietica insieme a Yuasa Yoshiko, una studiosa di letteratura russa. Tornata in Giappone si iscrisse nel 1931 al Partito Comunista e sposò Miyamoto Kenji. Nonostante i numerosi arresti scrisse parecchi racconti e saggi. Il marito fu detenuto per dodici anni, e in questo periodo scrisse migliaia di lettere pubblicate nel 1950 col titolo Juninen no tegami (Dodici anni di lettere).
Un’altra scrittrice proletaria fu Hayashi Fumiko (1904-1951) che lavorò come venditrice ambulante, cameriera e inserviente nei caffè. Ella scrisse Horoki (Storia del vagabondaggio, 1928), un’opera che commosse molti lettori. Hayashi Fumiko ebbe una popolarità straordinaria nel Giappone del dopoguerra e la sua vita fu rappresentata al teatro, al cinema e alla televisione. La sua città, Onomichi, la ricorda con affetto e con una presenza costante (musei, statue, mostre, musei, celebrazioni, etc.).
La controversa storia del comunismo giapponese si costella così di eventi drammatici e popolari, che se da un lato gli rendono fama, dall’altro non gli consentono di ottenere quel consenso elettorale necessario per influire nella vita politica giapponese. Dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, gli americani abolirono la terribile legge sull’ordine pubblico del 1900 e il 4 ottobre 1945 furono liberati i comunisti ancora detenuti. Ma l’essersi opposti al regime non facilitò la vita dei comunisti giapponesi.
Il Kyosanto (Partito Comunista), fuori legge dal 1924, tornò alla ribalta e riorganizzato dai vecchi dirigenti usciti dalla prigione e dal ritorno di quelli che si erano rifugiati dai comunisti cinesi (come Nonaka Sanzo). Rinasceva così nella piena legalità (1 dicembre 1945). Purtroppo le elezioni del 10 aprile 1946 furono estremamente deludenti. I socialisti ebbero il 17,8 per cento dei voti, mentre i comunisti appena il 3,8 per cento. Liberali e progressisti raggiunsero invece il 43 per cento. Le elezioni del 23 gennaio 1949 segnarono un successo per i comunisti ottenendo il 9,7 per cento dei voti, circa tre milioni di elettori. Il merito fu di Nonaka Sanzo che attraverso gli slogan "rivoluzione pacifica" e "comunismo simpatico" volle dare un’impronta tranquillizzante e umana al comunismo. Gli anni Sessanta e Settanta furono un periodo di duri scontri sociali che videro l’occupazione delle università e i tafferugli degli studenti con la polizia. La sinistra comunista contestava l’alleanza con gli Stati Uniti che erano considerati gli artefici di un nuovo imperialismo. Le vicende della guerra del Vietnam sembravano legittimare queste critiche. Negli anni Ottanta il benessere sembrava far dimenticare le diatribe della politica. Ma gli scandali della corruzione avrebbero colpito la classe dirigente, e l’opposizione comunista non avrebbe mancato l’occasione di condannare e mostrare le deformazioni del potere. Ma il comunismo doveva fare i conti con la storia, e il crollo dell’Unione Sovietica sembrava intonare il requiem per i seguaci di Marx. Questo scossone politico non sembrava però colpire le fondamenta del Partito Comunista in Giappone che veniva criticato per la sua arretratezza sulle posizioni marxiste di fine Ottocento. Ma era questa genuinità e arcaismo del comunismo giapponese che lo preservava dalle crisi ideologiche che colpirono gli altri partiti della sinistra. Essersi radicati ai valori della III Internazionale aveva significato non essere scesi a compromessi con i regimi sovietici, cubani e cinesi. Quest’ultimo recentemente convertitosi al capitalismo più bieco sostenuto dalla dittatura del partito unico.
Cosa rimane del comunismo giapponese? In Europa si parla di comunismo come di un fantasma del passato. E in effetti così comparve sulla scena mondiale secondo le stesse parole di Marx ed Engels. Però il Giappone è un paese dove si è abituati a convivere con i fantasmi, così come piaceva a Lafcadio Hearn, e si può esser certi che il comunismo non solo non apporterà danni, ma come in passato solleciterà il paese con nuove idee. E se ne avrà la forza, tirerà i fagioli ai nuovi e vecchi orchi come nella tradizione giapponese.

Bibliografia

AA.VV., Nihon no rekishi. Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.
Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.
Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.
Engels, Friedrich e Marx, Karl, Manifesto del Partito Comunista. Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1998.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.
Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998.
Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.

Heiwa, la filosofia della pace

Articolo sulla filosofia giapponese della pace pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Heiwa.

Heiwa. La filosofia giapponese della pace
di Cristiano Martorella

6 ottobre 2002. Heiwa in giapponese significa pace. Il suo contrario è la guerra. Ma che cos’è la guerra? La guerra sembra la naturale condizione dell’uomo e numerosi etologi hanno cercato di confermare questa opinione con le loro ricerche (1). Eppure non si tratta affatto di una condizione biologica bensì sociale. La guerra degli umani non si riduce a una istintualità animale, ma smuove un’organizzazione sociale e tecnologica caratterizzata da un cinismo e spietatezza incommensurabili. La guerra caratterizza l’uomo a tal punto che i paragoni sostenuti dagli etologi sembrano ridicoli motti di spirito. Topi e formiche sono stati invocati a testimonianza della tesi che vorrebbe spiegare la guerra con basi biologiche. Purtroppo nessuna specie animale ha mai raggiunto le vette dell’umanità nell’esecuzione dello sterminio di massa. Il salto qualitativo operato dall’uomo è tale che ignorarlo significa fingere nel modo più impudente. Accanto alla spiegazione biologica della guerra, ha continuato a ricevere consensi la spiegazione economica che interpreta i conflitti come esigenze drastiche del mercato (2). Se un paese non è nostro cliente bisogna invaderlo e costringerlo con la forza. Ci auguriamo che questa logica non passi dalla macroeconomia alla microeconomia.
Queste spiegazioni, sotto alcuni aspetti falsamente raziocinanti, rivelano una serie di incoerenze che tentano di nascondere la responsabilità umana della guerra. Inoltre si tralasciano i cinici vantaggi (non soltanto economici) del conflitto. Perciò è utile segnare alcuni punti:

1) La guerra è un atto volontario;
2) La guerra è facile da avviare;
3) La responsabilità della guerra può essere attribuita agli altri (il nemico);
4) La guerra crea coesione interna (coesione sociale);
5) La guerra sospende molte regole da rispettare (non rubare, non uccidere, non stuprare, eccetera).

Insomma, perché bisogna fingere che non esistano questi motivi ben utili all’esercizio della guerra? Il sotterfugio è rivelato ai punti 1 e 2. La guerra non è inevitabile, piuttosto è un atto volontario estremamente facile da avviare. I punti 3 e 5 sono comodi per nascondere nella formalità gli squilibri della psiche umana che ancora non tollera le regole della convivenza civile perché costituite su basi ipocrite e artificiali. La guerra è la più grande occasione di sfogo a qualsiasi pulsione aggressiva, ma è anche uno strumento politico. Ed è questo miscuglio di burocrazia e organizzazione con tensione ed eccitazione a costituire la natura autentica della guerra. In conclusione, la guerra è la forma burocratica e politica (3) di un conflitto e un’incoerenza interiore dell’umanità. Il buddhismo propone perciò come soluzione un miglioramento spirituale da applicare all’individuo. Bisogna intervenire sulla persona per ottenere un concreto e durevole cambiamento sociale.
L’insieme di dottrine eterogenee a sostegno di questa tesi è ciò che noi chiamiamo "la filosofia giapponese della pace". Non è paradossale, anzi ne è l’origine, che questa filosofia nasca nel paese che ha vissuto la circostanza storica della costituzione della nobile casta di guerrieri (bushi) feroci e determinati, e peggiore, il meschino militarismo del Novecento. Chi ha conosciuto le aberrazioni della guerra desidera ardentemente che esse rimangano un ricordo del passato. Purtroppo al momento attuale non è così.
Sicuramente è stato un errore non capire la necessità dell’educazione alla pace. L’insegnamento ha peccato enormemente nel ritenere trascurabile ciò che sembrava già acquisito. E qui ritorna il punto su cui insiste il buddhismo, e particolarmente la Soka Gakkai. La pace deve essere un valore da trasmettere e inserire nella formazione dell’individuo. Così si esprime Ikeda Daisaku che ricorda l’insegnamento di Toda Josei.

"Toda osservò: I sistemi di governo e le istituzioni sociali non furono create per competere e lottare tra loro. Furono concepite e adottate per accrescere il benessere dell’umanità. […] Quando la filosofia e la religione cadono nell’errore e nel disordine, significa che la saggezza del popolo si è appannata. Secondo il principio della vera entità di tutti i fenomeni e dell’unità della vita e del suo ambiente, ciò determina caos e disarmonia nella vita creando disordine e contrasti nell’ambiente, ovvero nella società e nella nazione." (4)

Ikeda Daisaku insiste poi sulla necessità di fondare una nuova filosofia, una filosofia universale della pace.

"Abbiamo assistito alla caduta del comunismo in un’epoca già caratterizzata da una dilagante assenza di filosofia. Vediamo che ovunque […] dai paesi del terzo mondo in lotta contro la povertà alle nazioni industrializzate con tutti i loro problemi, in breve in tutto il mondo contemporaneo che colloca il rendimento economico al di sopra di tutto, il genere umano sente la necessità di una filosofia nuova ed efficace. La gente avverte un vuoto spirituale ed è alla ricerca di qualcosa che lo colmi, qualcosa che possa ridare energia e speranza a un’esistenza sempre più fragile e mortificata. "(5)

La filosofia giapponese della pace fonda i suoi princìpi sull’insegnamento del buddhismo. Toda Josei aveva indicato l’esigenza che il buddhismo non fosse limitato al campo dottrinale della religione, ma venisse applicato concretamente estendendo la sua influenza nella sfera sociale. Poiché il buddhismo professa un cambiamento universale partendo dal cambiamento del singolo individuo, è tramite l’educazione che si può pervenire al più alto dei risultati. Ed è ciò che questi autori chiamano "rivoluzione umana" (ningen kakumei).

"Una grande rivoluzione nel carattere di un solo uomo permetterà di realizzare un cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità." (6)

Questa filosofia unisce la prassi e la teoria essendo qualcosa che si pone al di sopra della speculazione dottrinale.

"La filosofia della vita descritta da Toda non è frutto di una speculazione teoretica, né frutto di ripetute analisi e sintesi razionali e scientifiche. Allo stesso tempo non è in contraddizione con la scienza e la ragione. Egli la estrasse dalle profondità del Sutra del Loto impegnando ogni energia nell’accanita ricerca della verità. La filosofia di Toda rappresenta la saggezza del Sutra del Loto: non ci informa soltanto sulla natura della vita, ma ha il potere di cambiare il nostro modo di pensare, di indurre nella nostra quotidianità un senso di speranza, di disporci all’azione. E’ una filosofia pragmatica che fa scaturire la nostra forza vitale." (7)

Quando si introduce il termine "vita" in una discussione filosofica, si rischia sempre che esso venga frainteso. I filosofi giapponesi intendono la vita come qualcosa che non possa essere riassunto da un’elaborazione intellettuale, qualcosa che non è riducibile a un concetto. La vita è irriducibile, essa non è riducibile a qualsiasi altro concetto. E come fenomeno non è riducibile a nessuna entità trascendentale o spirituale. L’impossibilità di ricondurre la vita e la natura a uno scopo era stata evidenziata da Immauel Kant nella Critica del giudizio.

"Della finalità esterna delle cose della natura abbiamo detto avanti che essa non basta ad autorizzarci a considerare queste cose come fini della natura per spiegare la loro esistenza, e ad usare i loro effetti, accidentalmente finali rispetto all’idea, come fondamenti della loro esistenza secondo il principio delle cause finali." (8)

Il carattere essenzialmente libero e non finalistico della vita è dunque riconosciuto anche da parte della filosofia occidentale. Ma l’umanesimo professato dalla filosofia giapponese, in cosa si differenzia dall’umanesimo europeo? Saito Katsuji sembra fornirci una risposta netta e precisa.

"Il termine "umanesimo cosmico" sottolinea la differenza rispetto alla visione antropocentrica finora dominante, secondo cui tutte le altre forme di vita diverse dalla nostra possono essere sacrificate in nome degli esseri umani." (9)

Insomma, un umanesimo profondamente diverso dall’umanesimo europeo. Questa diversità sembra superare quelle difficoltà politiche e ideologiche che alcuni autori vicini ai movimenti no-global hanno messo in luce. Ci riferiamo in particolare a Michael Hardt e Antonio Negri che hanno cercato di riscrivere la storia mondiale criticando il concetto di modernità (10). L’umanesimo giapponese è un umanesimo privo di ideologia e molto pragmatico. Esso assomiglia all’approccio che lo scrittore Alessandro Baricco ha mostrato occupandosi dei problemi della globalizzazione.

"Le cose sono più complicate di quanto sembrino. La rassicurante prospettiva di uno scontro frontale, buoni contro cattivi, è un’astrazione teorica, non c’entra col mondo reale, e serve solo a motivare i soldatini di un esercito obsoleto. […] Sto cercando di suggerire che sono problemi veri di cui però sappiamo ancora poco, perché abbiamo studiato molto le scarpe e i film ma non abbiamo studiato a sufficienza noi stessi: conosciamo tutti i segreti delle multinazionali, ma non abbiamo un’idea chiara dell’uomo che sta di fronte a loro." (11)

Ecco che cos’è l’umanesimo del XXI secolo: la riscoperta di un soggetto della storia che tendiamo a dimenticare. Ma l’umanesimo giapponese (o umanesimo cosmico) è anche un superamento del dualismo uomo/natura poiché viene recepito l’insegnamento della filosofia orientale.
La filosofia giapponese del Novecento ha contribuito notevolmente alla considerazione della pace come meta prioritaria da raggiungere. Mentre i politici sceglievano lo strumento delle armi per imporre con la forza un equilibrio e una pace unilaterale, molti studiosi si interrogavano sulle possibilità che la filosofia poteva offrire alla prospettiva pacifista. Tanabe Hajime raggiunse i risultati più ragguardevoli. Egli teorizzò una "filosofia che non è filosofia" (tetsugaku naranu tetsugaku). Tanabe intendeva riconoscere i limiti della ragione ponendo l’esistenza umana al di sopra della speculazione e del calcolo che è capace di giustificare ogni crimine. Dunque prospetta una autonegazione della filosofia ricorrendo al principio buddhista del nulla (mu). Questa negazione della filosofia non è una negazione in senso distruttivo, ma una rinascita (12). Così Tanabe Hajime si rifà all’insegnamento del maestro buddhista Shinran (1173-1262) e alla nozione di tariki (il potere salvifico di Buddha attraverso gli sforzi comuni dell’umanità).
In conclusione, la filosofia giapponese è un’autocritica alla filosofia medesima e un’apertura alla diversità. La novità della filosofia giapponese consiste appunto in questa attenzione nei confronti della pace (attenzione altrove mancata).


Note

1. Queste interpretazioni sono state sostenute soprattutto in base alle considerazioni delle opere di Konrad Lorenz. Cfr. Lorenz, Konrad, Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano, 1969. Durissima la critica di Schmidbauer che accusa di "aspetti ideologici occulti" le spiegazioni biologiche dei fenomeni sociali. Cfr. Schmidbauer, Wolfgang,Uomo e natura. Anti-Lorenz, Laterza, Roma-Bari, 1978. Anche Fromm condanna gli eccessi di questi etologi in un classico sull’argomento: Cfr. Fromm, Erich, Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondadori, Milano, 1975.
2. Karl Marx è stato il sostenitore più convincente e attendibile di queste spiegazione. Il periodo di espansione coloniale in cui viveva Marx aveva sicuramente una corrispondenza con quanto affermato. Ma il modello marxiano è strettamente storico (come sostenuto dal medesimo autore) e non può essere considerato universalmente. Cfr. Marx, Karl, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1950; Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1957; Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974.
3. L’idea diffusa che la guerra accompagni la vita dell’uomo è falsa. Fra molti popoli primitivi la guerra è assente (questo è il caso degli eschimesi o inuit). La guerra progredisce e diviene pervasiva con l’espandersi della politica. Karl von Clausewitz affermò che la guerra "è una continuazione della politica con altri mezzi". L’esperto Clausewitz ha perfettamente ragione. La guerra è una forma della politica. Egli è decisamente chiaro su questo versante. "Affermiamo dunque che la guerra non rientra nel campo delle arti e delle scienze, ma in quello della vita sociale. […] Più che a qualunque arte è paragonabile al commercio che è anche un conflitto di interessi, ma più vicina ancora le sta la politica". Cfr. Clausewitz, Karl, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970. Come lettura critica si possono consultare parecchi volumi di orientamento diverso: Jean, Carlo, Il pensiero strategico, Franco Angeli, Milano, 1985; Bouthoul, Gaston, Le guerre, Longanesi, Milano, 1951; Stamp, Gerd, Clausewitz nell’era atomica, Longanesi, Milano, 1966; Aron, Raymond, Penser la guerre, Clausewitz, Gallimard, Paris, 1976.
4. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.134.
5. Ibidem, p.1.
6. Ibidem, p.142.
7. Ibidem, p.21.
8. Cfr. Kant, Immanuel, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.437.
9. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.12.
10. Cfr. Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002.
11. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e il mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, p.59.
12. Cfr. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami, Tokyo, 1946.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.
Ikeda, Daisaku, La rivoluzione umana, Esperia Edizioni, Milano, 1994.
Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Esperia Edizioni, Milano, 1999.
Sakaiya, Taichi, Taihen na jidai, Kodansha, Tokyo, 1998.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.
Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999.
Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.

giovedì 18 novembre 2010

Kojo, la fabbrica giapponese

Articolo sul sistema produttivo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella

4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.

"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."

Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:

" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."

Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.

Bibliografia

Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.

Chonin, i commercianti

Articolo sul ruolo fondamentale dei commercianti nell'economia giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Chonin. Commercio e cultura
L’importanza dei commercianti nella cultura ed economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 luglio 2003. Il ruolo svolto dai commercianti (chonin) nel Giappone premoderno e moderno ha avuto la giusta attenzione da parte della saggistica. Purtroppo l’immagine comune e superficiale che si ha del Giappone è fossilizzata sulla rappresentazione del guerriero samurai, offuscando gli altri protagonisti della storia. Si può però rimediare facilmente a tale falsa impressione ricordando quanto è stato evidenziato dagli studiosi più avveduti.
Sono due i punti da rimarcare per una corretta conoscenza della storia economica giapponese:

1) La dinamica e mobilità sociale fra le classi;
2) Il processo di sviluppo capitalistico avvenuto dal basso in modo spontaneo.

La mobilità sociale del Giappone premoderno è stata così elevata quanto dimenticata. Eppure fu questo fenomeno che causò le trasformazioni della struttura economica e sociale del paese. Questa trasformazione avvenne in modo incontrollabile da parte del potere politico shogunale che non seppe adeguarsi e si ritrovò ad assistere all’ascesa della borghesia mercantile (chonin). Gli shogun dell’era Tokugawa ebbero un atteggiamento ambivalente nei confronti della borghesia. A livello ideologico la condannarono sostenendo la validità dei princìpi neoconfuciani e rilanciando le scuole di pensiero conservatrici (Sushigaku, Shoheiko, etc.). Anche ciò produsse però l’effetto contrario perché il neoconfucianesimo giapponese favorì la razionalizzazione negli studi che furono poi alla base della rangaku (scienza occidentale). A livello pratico i Tokugawa gettarono le fondamenta dello sviluppo urbano tanto da creare a Edo, poi Tokyo, il modello metropolitano. Bisogna comunque sottolineare che senza l’unificazione politica del Giappone operata dai Tokugawa, non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico e il superamento del modello rurale. Lo storico Yamamura Kozo (1) ha chiarito con dovizia e precisione come lo sviluppo economico del Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) fu un processo spontaneo nato dal basso per merito della borghesia prosperata nel periodo Edo (1603-1867). Risulta così falsa la tesi che sostiene la modernizzazione dell’economia giapponese condotta dall’alto dalle autorità governative, o peggio, indotta dalla penetrazione degli occidentali. Già Edwin Reischauer (2) aveva notato come il feudalesimo giapponese avesse caratteristiche molto simili a quello europeo, e sappiamo quanto questo genere di organizzazione sociale, che favoriva la formazione di centri urbani, fosse importante per creare le condizioni per l’avvio del capitalismo mercantile. Perciò lo sviluppo capitalistico giapponese fu assolutamente autoctono e non indotto dall’esterno. Sorprende che ancora oggi vi sia qualcuno che sostenga la tesi dell’introduzione dall’esterno del modello capitalistico negando di fatto che i giapponesi siano gli artefici della propria storia. Si tratta comunque di una tesi con forti influenze ideologiche che presuppone il primato del sistema occidentale nella sua unicità. Così non è, ed è bene ribadirlo.
Altra caratteristica importante della storia nipponica fu la forte mobilità sociale dal XVI secolo in poi, ovvero il passaggio a classi diverse dal proprio lignaggio e la commistione dei diversi strati sociali che provocava trasformazione, progresso ed evoluzione culturale ed economica. Risulta infatti chiaro e ben evidente che l’immobilità sociale sia antitetica a un sistema capitalistico basato sul libero mercato. Il grande rimescolamento sociale del XVI secolo fece coniare agli storici giapponesi l’espressione ge koku jo (il basso vince l’alto), un’espressione molto efficace ricordata anche dall’orientalista Thomas Cleary. La mescolanza fra le classi avvenne secondo due direzioni. Prima della separazione di contadini e guerrieri operata da Toyotomi Hideyoshi nel 1588 e chiamata heino bunri, c’era una commistione fra samurai di campagna (goshi) e contadini armati. Un fenomeno ricordato da Kurosawa Akira nel film I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) col personaggio di Kikuchiyo interpretato da Mifune Toshiro. Aspetto ironico della faccenda è che la divisione fu operata da Toyotomi Hideyoshi, uomo di umili origini contadine che era asceso al potere per meriti militari acquisendo il titolo di daijo daijin (ministro), e la nobiltà tramite il sistema dell’adozione (yoshi). L’altro movimento molto più ampio fu quello che avvenne dopo l’organizzazione del XVII secolo con la separazione in quattro classi (shinokosho). Gli uomini di città, ossia i mercanti e la borghesia, furono chiamati chonin. Il potere shogunale cercò di mantenere forzatamente la separazione fra le classi così da garantire il governo della popolazione che non poteva formare un fronte compatto e ribellarsi. Il declino dei Tokugawa fu provocato dall’impossibilità di mantenere questa immobilità sociale. Infatti i samurai si mischiarono ai chonin godendo dei vantaggi della vita urbana e molti di essi cambiarono classe divenendo chonin. I samurai che non cambiarono classe ebbero comunque forti contatti con i borghesi, e come i ronin, samurai senza padrone, vivevano in mezzo a loro. I lavori svolti dai ronin per sopravvivere, come l’insegnamento delle lettere e delle arti, provocarono una diffusione molto vasta della cultura non più riservata a una sola classe. Gli stessi chonin si recavano a teatro per assistere alle storie che vedevano come protagonisti i samurai. Lo spostamento dell’impiego dell’arte dall’aristocrazia alla borghesia è un fenomeno avvenuto anche in Europa nel XIX secolo dopo le trasformazioni sociali avviate dalla rivoluzione francese. In Giappone ciò accadde molto prima, nel XVII secolo del periodo Edo. A ciò si aggiungeva, ed è l’aspetto più importante, la formazione di un tessuto urbano altamente produttivo e con caratteristiche borghesi nettamente marcate. Ciò significa che l’economia dell’epoca si fondava sulla produzione di beni con elevato valore aggiunto, un tratto caratteristico delle società capitalistiche. Tuttavia restava ancora arretrato il sistema monetario, in parte basato sul riso e su diseguali monete d’oro, argento, rame e ferro con cambi vari e disomogenei. Perciò dobbiamo attendere l’era Meiji (1868-1912) per vedere uno sviluppo completo del capitalismo. Comunque la coincidenza nel tessuto urbano del sistema produttivo (economia) e del mondo dell’arte (cultura) nel Giappone del periodo Edo (1603-1867) è un aspetto estremamente significativo. Soprattutto indica la forza del rapporto cultura/economia nella storia giapponese. Passiamo a ricordare quanto la cultura della borghesia (chonin bunka) fosse dominante nonostante l’avversione dell’ideologia delle autorità governative. La cultura Genroku (1688-1704) fu rappresentata dalla letteratura del Kamigata e dai nomi di Ihara Saikaku, Matsuo Basho e Chikamatsu Monzaemon. Nato da una famiglia di commercianti di Osaka, Ihara Saikaku divenne celebre per le sue opere di eccezionale realismo. Nella serie di racconti intitolati Nippon eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone, 1688), egli narra le vicende di persone arricchite o impoverite. Ihara Saikaku ammette in modo spudorato e sincero l’attitudine dei chonin con la seguente frase: Yo ni zeni hodo omoshiroki mono wa nashi (In questo mondo non c’è niente di più interessante dei soldi). L’aspetto che stiamo sottolineando è la coincidenza di cultura ed economia che traevano la propria forza dallo stesso tessuto sociale. Si pensi a Ejima Kiseki (1667-1736), un mercante che divenne scrittore, oppure un intellettuale poliedrico come Hiraga Gennai (1728-1779) che fu ronin, ceramista, botanico, inventore e scrittore. Costoro, con le dovute differenze di estrazione sociale, vivevano però nello stesso mondo e condividevano la stessa vita urbana dell’epoca. La drammaturgia e la narrativa erano finanziati dai ricchi chonin. Come nel caso di Ejima Kiseki, gli editori (per questo scrittore fu Hachimonjiya) erano enormi librerie che sovvenzionavano gli autori. Il sistema produttivo prosperava grazie alla creatività dei cittadini borghesi e l’espansione capitalistica era avviata da tale spirale virtuosa in cui chi produceva era anche consumatore (ciò è completamente diverso dal sistema rurale dove l’aristocrazia era parassitaria). La nascita dell’economia giapponese avvenne dal basso e in modo spontaneo. Così fu per la cultura, tanto che si può dire che la cultura pop giapponese più diffusa fu quella dell’epoca Edo, se vogliamo usare una terminologia attuale e di moda. È bene ricordare che questa idea della nascita della cultura pop nell’epoca Edo è stata proposta dall’architetto Ueda Atsushi. L’autorevole storico Yamamura Kozo, spiega in modo molto chiaro il concetto della nascita dal basso dell’economia e cultura giapponese.

"È fuori dubbio che il Giappone sia un paese moderno e che faccia parte dell’Asia: la conclusione evidente è che esso dovette modernizzarsi secondo proprie modalità. Un kimono in fibra sintetica richiama alla mente tanto l’abbigliamento di un samurai quanto l’architettura di un impianto chimico gigantesco e molto complesso: non è per questo necessario chiamarlo un tailleur, né definire magia occidentale un processo chimico. Al pari di un kimono di rayon, l’economia giapponese è un prodotto dell’industrializzazione, ma la modernizzazione che l’ha accompagnata non ha occidentalizzato il paese sino al punto da cancellare completamente il retaggio peculiare della sua storia e della sua cultura. Se questo è il motivo principale del fascino che la storia economica del Giappone esercita su di noi, va aggiunto che la capacità di divenire moderno senza perdere il senso della propria eredità nazionale è in fin dei conti il segreto del successo industriale dell’arcipelago." (3)

Nonostante sia evidente a tutti, il pregiudizio che i giapponesi abbiano copiato dagli occidentali, sia le strutture sociali sia le tecniche, è difficile da estirpare. Ammettere che il modello occidentale di civiltà non è l’unico e il migliore è ancora troppo difficile o addirittura un tabù (4). Così si impedisce la comprensione della storia economica, ma vi si può porre rimedio.


Note

1. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino,1980.
2. Cfr. Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994, p.44.
3. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino, 1980, p.321.
4. In proposito ha ricevuto apprezzamento da parte degli economisti la denuncia di questo tabù da abbattere. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia, XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.

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